L’uomo che per un ventennio ha dominato politica e affari, che è stato presidente del Consiglio e che oggi è il referente di un partito di governo, ha dichiarato che i suoi figli «si sentono come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler».
È una frase che lascia a bocca aperta. Come si fa a spiegare a lui e soprattutto a chi lo ascolta la differenza che c’è tra le conseguenze di una condanna per evasione fiscale e lo sterminio di milioni e milioni di esseri umani? Non è possibile. Si è disarmati. Il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha detto giustamente che più che agli ebrei Berlusconi dovrebbe delle scuse a se stesso. E Renzo Gattegna, presidente dell’unione delle comunità ebraiche italiane, ha provato a spiegare la differenza che passa tra l’Italia democratica di oggi e la Germania nazista. Spiegare pacatamente perché quelle parole sono insensate è un buon esercizio: ma bisogna mettere in guardia chi prova a correggere e spiegare. Perché così facendo, assumendo che si possa discutere e dialogare con chi dice parole del genere, si rischia di renderlo pubblicamente credibile. Forse solo un disprezzo silenzioso può esprimere lo sconcerto e l’indignazione che proviamo, il senso di vergogna che ci sentiamo gravare addosso come italiani, anzi prima ancora come esseri umani.
Ma la cosa è accaduta. Quelle parole sono state dette e immediatamente rilanciate dai media. Siamo davanti a un fatto pubblico, non a una battuta di ubriachi al bar. Non mancheranno esegeti pronti a giustificarle come espressione di una sofferenza umana da meditare pensosamente, da usare come ricatto politico per chiedere una grazia presidenziale o un ennesimo sfregio alla giustizia. Bisogna dunque chiedersi perché sia stato possibile che accadesse; bisogna chiedersi anche e soprattutto come si deve reagire a un fatto come questo. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi osserva le cose italiane e ci giudica per quello che vede. Lo dobbiamo anche e soprattutto a coloro che questo tempo chiameranno antico. Ci saranno in futuro storici che interrogheranno questo tempo nostro: avranno certamente strumenti più raffinati dei nostri. Saranno in grado di spiegare la malattia sociale italiana che ha preso il nome di quell’uomo individuandone le cause, così come noi siamo capaci di spiegare certe degenerazioni e follie del Medioevo perché sappiamo ad esempio quali allucinazioni potesse dare la segale cornuta del pane che mangiavano. Questo nostro modernissimo Medioevo che si nutre soprattutto di chiacchiere e immagini televisive, ci pone invece davanti a episodi come questo, dove l’indecenza privata si mescola con una forte componente di responsabilità collettive. Di indecente c’è la mancanza di pudore di un padre che tira in ballo i figli e se ne fa scudo: non solo, attribuisce loro pensieri e sentimenti che se fossero veramente da loro condivisi farebbero emergere un vuoto di cultura e di sensibilità tale da rendere urgente un ciclo di recupero scolastico e di alfabetizzazione elementare. C’è da chiedersi se quei figli accetteranno in silenzio l’attribuzione di quei pensieri: perché anche all’interno dei rapporti più intimi c’è un momento in cui ognuno deve tutelarsi e prendersi le sue responsabilità. Non abbiamo dimenticato che, prima ancora dell’avvio del processo Ruby, ci fu una lettera pubblica con cui la signora Veronica Lario rese noto lo scandalo di quelle che definì le vergini offerte al drago: lei lo fece in nome del rispetto dovuto a se stessa.
Quella frase ha espresso e addebitato a presunti pensieri dei figli una forma di grave, inaudito negazionismo. Da un lato le file sterminate di milioni e milioni di uomini, donne, bambini che entravano nelle camere a gas e finivano poi nei forni crematori, dall’altro come un piatto della stessa bilancia i figli di Berlusconi e il loro stato d’animo in seguito alla condanna del padre. Dovrebbe por mente a questo chi si è interrogato anche di recente su come si possa rendere giustizia alla memoria delle vittime e impedire quell’estrema, definitiva ingiustizia che è la negazione o la minimizzazione della Shoah. Si metta a prova su questo caso l’adeguatezza della misura penale di cui si parla nel paese e si dovrà discutere in Parlamento. Quale punizione spetterebbe a chi, per la sua posizione sociale, per i media che governa e i giornalisti che paga, per il numero di cittadini italiani che ancora pendono dalle sue labbra, ha messo in circolazione nel linguaggio pubblico non una semplice minimizzazione ma una vera e propria ridicolizzazione della più grande tragedia del nostro tempo? In casi come questi una amministrazione della giustizia meno torpida e priva di fantasia di quella che da noi è capace solo di misure carcerarie dovrebbe imporre forme di alfabetizzazione civile: per esempio corsi accelerati di storia contemporanea, servizio di assistenza ai visitatori della risiera di San Sabba, l’obbligo di imparare a memoria un congruo numero di pagine di «Se questo è un uomo».
Ma c’è un punto in cui il nodo delle responsabilità si aggroviglia, diventa un fatto di moralità pubblica e di responsabilità politica. Abbiamo sentito disquisire in questi giorni sul limite che divide privato e pubblico, sulle ragioni che dovrebbero impedire la permanenza al governo di un ministro non molto attento all’esistenza di quel limite. Ma si tratta di un fuscello rispetto alla trave che sta nell’occhio del Partito Democratico: una trave che si chiama alleanza di governo con Berlusconi e i suoi devoti.
La Repubblica 07.11.13