Dispiace che la vicenda Cancellieri stia diventando un affaire politico, ma era prevedibile. Anche se era difficile immaginare fino a che punto sarebbero arrivati gli esponenti del Pdl. Cioè, mettere sullo stesso piano la telefonata della Cancellieri e quella dell’allora capo del governo, Berlusconi, alla questura di Milano per intercedere a favore di Ruby. In entrambi i casi si sarebbe trattato, a loro parere, di gesti umanitari, anche se – andrebbe precisato almeno questo – i protagonisti delle due vicende ave- vano interessi evidentemente diversi. Vale dunque la pena di fare chiarezza, sottolinean- do alcuni punti elementari.
Il problema del rapporto tra diritto e morale, tra ciò che è «giusto» e ciò che è «buono», è assai antico, risale alla origini della riflessione filosofica. Ad esso sono state date differenti risposte, a seconda degli obiettivi che sono stati scelti e dichiarati primari. Nel Seicento, quando il problema essenziale è quello della sicurezza dello Stato, è teorizzato il prevalere del diritto, della potenza e anche della forza sulle istanze di ordine morale, sui diritti individuali, personali.
Ma è sempre stato così, anche in tempi più vicini a noi e in situazioni affini: quando negli anni Settanta c’è stata in Italia una sorte di «guerra civile», il problema della sicurezza dello Stato è diventato prioritario ed è prevalso sulla garanzia dei diritti individuali, generando anche lo spargimento di sangue innocente, che, ancora oggi, geme e si lamenta perché i «morti», a differenza dei «vivi», non possono dimenticare.
Oggi la situazione è assai diversa, e la difesa dei diritti individuali è considerata con ben altra attenzione di quanto accadesse alcuni decenni fa. Anzi, è stata generata una specifica legislazione che garantisca questa delicata zona del vivere umano, specie quando si tratta di persone collocate in una condizione di debolezza, di fragilità. Del resto, e va sottolineato con forza, sta qui il sigillo di civiltà di uno stato che abbia a cuore, oltre alla sicurezza, la pace e il «ben vivere» dei propri cittadini, specie quando sono emarginati o carcerati. Chiunque conosce, o intuisce, la situazione delle carceri italiane sa infatti che questo è il campo più complesso, più difficile, più bisognoso di inter- venti efficaci sul piano strettamente legislativo, come si è cominciato a fare. La «cura» dei deboli è la pietra di paragone di uno stato democratico, che anche per questo è il più «naturale», come diceva un grande filosofo moderno.
È stato dunque «giusto» e «buono» procedere nei confronti di Giulia Ligresti come è stato fatto, e di questo occorre compiacersi con i magistrati che hanno gestito, nel modo migliore, questa complessa vicenda. Né è possibile mettersi a fare i «moralisti», ricordando lo stato di grande agiatezza in cui ha vissuto lungamente: i cittadini sono tutti eguali di fronte alla legge e, prima ancora lo sono, di fronte alle sofferenze ultime, quelle che tendono a incrinare, e talvolta a spezzare, la parete che separa i vivi dai morti.
Non è dunque in questione l’operato della magistratura, su cui non si discute, mentre appare discutibile il comportamento del ministro. La domanda che, in genere, si pone è questa: la Cancellieri ha saputo distinguere tra pubblico e privato, tra la sua funzione pubblica e i suoi rapporti privati? Si è comportato allo stesso modo in situazioni analoghe? Tutte domande legittime, alle quali mi ministro deve rispondere. Qui però non intendo porre il problema della opportunità della telefonata della Cancellieri, né di un possibile conflitto di interesse per ragioni familiari. Sono personalmente convinto che il ministro sia in buona fede e sia un integro funzionario dello Stato. Voglio porre un problema che considero più grave, dal punto di vista del nostro vivere civile, repubblicano. Quando il ministro parla di «umanità», cui non intende venir meno, a cosa si riferisce con precisione?
È un temine coinvolgente ma difficile da delimitare e governare. In nome della «umanità» si può pensare di essere autorizzati a qualunque cosa, fino a sostituire il foro della propria «coscienza» – intesa come principio fondamentale delle proprie azioni e dei comportamenti – al piano della legge che è tale in quanto è, nei limiti del possibile, obiettiva e condivisa, e come tale base, e garanzia, del vivere civile democratico, fondato sulla eguaglianza senza cui non può esserci né repubblica, né democrazia.
Se stessi discutendo tra filosofi o teologi, direi che nel comportamento, e nelle dichiarazioni, della Cancellieri c’è, consapevole o inconsapevole, un elemento proprio della tradizione cristiana di tipo «agostiniano» imperniato sul primato della «coscienza» personale sullo «stato». A questo livello, la dimensione dello stato, del pubblico si dilegua, evapora, non c’è più, qualunque sia la propria intenzione. Ciò che si ritiene giusto nella interiorità della propria coscienza diviene infatti tale anche sul pia- no oggettivo, dei comportamenti pubblici, istituzionali, e come tale viene proposto e difeso.
Posizione, certo, assai dignitosa e basata su una tradizione così forte e lunga, da diventare una sorta di riflesso condizionato, pronto a scattare, e a rivelarsi, nel momento del pericolo, nelle situazioni di crisi. Ma lo stato moderno, ed anche la nostra Repubblica è fondata su altri fondamenti di ascendenza civile e laica da cui discende il principio, sancito dalla Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, anche i ministri. Questo è dunque il punto in questione, di cui dovrebbe discutere anche il Parlamento, se ne fosse capace: il fondamento ultimo dello stato, della legge, della Repubblica.
In breve, nell’affaire Cancellieri sono coinvolti alcuni importanti questioni di principio concernenti le fondamenta del nostro vivere civile, che travalicano il problema delle dimissioni di un ministro, e su cui converrebbe confrontarsi in modo aperto specie in un momento di crisi dei «principi» repubblicani come quello che stiamo attraversando. Forse si innalzerebbe il livello della vita civile nel nostro Paese e si comincerebbe ad uscire dal fango in cui, come al solito, siamo precipitati.
L’Unità 05.11.13
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