Ora è persino troppo facile infierire su Mario Monti all’insegna della vecchia massima “chi è causa del suo ma…..”. Se egli avesse dato ascolto ai tanti, a cominciare da Napolitano, che gli sconsigliavano di farsi parte tra le parti, di dare vita all’ennesimo, piccolo partito, avrebbe potuto preservare il suo profilo apprezzato di tecnico e di riserva della Repubblica. La sua parabola e l’epilogo di uomo sconfitto e rancoroso suggeriscono qualche spunto di riflessione. In primo luogo, la consapevolezza che la politica vanta una sua autonomia e specificità, che essa, weberianamente, presuppone una «vocazione» che palesemente Monti ha mostrato di non avere. Di qui i suoi limiti e i suoi errori, di cui poi è caduto vittima. Penso alla fallace idea che la cura per la polis tutta si risolva nel sapere tecnico ed economico, mentre essa esige anche altre attitudini tipo il gioco di squadra (la politica è azione collettiva), la ricerca del consenso, il governo delle relazioni con persone e forze politiche. In secondo luogo, anch’egli è incappato nella mitologia del centro e della terzietà. Nella convinzione cioè che quasi magicamente la verità e il bene stiano per definizione nel mezzo. Ignorando due circostanze: a) che il centro e il mezzo sono concetti relativi in rapporto agli estremi, i quali non possono essere dogmaticamente assimilati (Pd e Pdl non possono essere messi sullo stesso piano da un sincero cattolico liberale); b) che molti altri politici prima di Monti e più scafati di lui hanno vanamente provato a dare vita a operazioni centriste con i risultati che conosciamo. Da Martinazzoli a Cossiga, da D’Antoni-Andreotti a Casini. La stessa conduzione personalistica di Scelta civica e l’impressione trasmessa in più di un passaggio di privilegiare le proprie mire a questa o quella alta postazione (si pensi alla presidenza del Senato cui irritualmente aspirò dopo il voto essendo ancora premier in carica e che costrinse Napolitano a suggerirgli energicamente che non era il caso; senza prendere per buone le indiscrezioni da lui smentite della richiesta a Prodi dell’impegno a conferirgli l’incarico di formare il governo in cambio del voto di SC per il Quirinale), più che alla sua ambizione, sono ascrivibili al suo approccio impolitico alla politica e alle istituzioni. C’è poi la sottovalutazione dell’esigenza di dare a un aspirante partito una base ideologica e programmatica minimamente riconoscibile, che non si risolvesse nella celebrata «agenda Monti». Cioè in un contingente programma di un governo di emergenza sorretto da una «strana maggioranza» e definito sin nel titolo da un nome proprio, il suo. Insomma l’ennesimo partito personale, guidato da una personalità di rilievo ma – Monti non ce ne voglia -, a differenza di altri leader di partiti personali, priva di carisma. Infine, la visione di Monti, ancor prima del suo ingresso in politica, rivela un altro limite: è l’idea che un governo audacemente riformatore esiga le larghe intese. Una idea ingenua e infondata. È vero il contrario. La larghe intese più facilmente scontano i piccoli compromessi. Semmai un governo sorretto da una base politica omogenea e dotato di un respiro lungo è più attrezzato per operare effettive, concrete riforme di sistema coerenti con una visione. Al fondo di tale equivoco sta la genericità del concetto di governo riformatore. Non si danno vere riforme neutrali. Spetta alla politica – e più esattamente alle forze politiche in cui si articolano i regimi democratici – declinare la direzione, il senso, il sistema di valori di riferimento del riformismo che si intende praticare. Nel caso nostro, per stare al concreto, Monti non può pretendere che il Pd si possa contentare del suo riformismo di stampo liberale e tecnocratico. L’ambizione del Pd, partito di centrosinistra, è più alta. Tantomeno egli può confidare in un partito, il Pdl, retto da un leader populista nonchè imprenditore oligopolista, l’opposto del paradigma liberale.
Su un punto invece si può comprendere l’amarezza e il disappunto di Monti a fronte della disinvoltura con la quale taluni professionisti politici, «navigatori» di un centro mobile incline al trasformismo si sono serviti di lui per veleggiare ora verso un rapporto privilegiato con il Pdl. Monti ha ragione a denunciare la strumentalità e la contraddizione di chi da un lato lo accusa di un eccesso di criticismo verso il governo Letta e dall’altro si avvicina a un Pdl tuttora non deberlusconizzato che, a giorni alterni, minaccia la crisi. Una operazione che, come primo atto, potrebbe contemplare un aiutino a Berlusconi nel voto sulla sua decadenza, che tuttavia, nel medio periodo, si propone di accelerarne l’emarginazione politica dentro un nuovo centrodestra. Dunque una operazione spregiudicata e ambiziosa (non a caso c’è anche lo zampino di Cl) scandita in te stadi: che, semplifico, oggi mette sotto Monti, domani Berlusconi e dopodomani potrebbe scheggiare lo stesso Pd. Non sorprende che Monti, per sua ammissione dilettante della politica, faccia fatica a darsene una ragione.
L’Unità 28.10.13