Caro Direttore,
la politica è prima di tutto contenuti. È su questo aspetto, nell’avvio della fase congressuale, che vorrei soffermarmi. Per me il Pd è – tra le prime cose – il partito del lavoro. Lavoro come promozione umana, come realizzazione di sé. Lavoro come volano di libertà.
Recuperiamo il termine e il concetto di lavoro come atto di nascita politico ora troppo negletto. E riappropriamoci del vocabolo libertà, che da troppi anni abbiamo colpevolmente consegnato alle destre (come ci dice acutamente George Lakoff).
Il lavoro come elemento fondante della vita di ciascuno, dato centrale della propria libertà sociale. Oggi anche Papa Ratzinger nell’enciclica afferma che occorre «garantire a tutti l’accesso al lavoro, e anzi: a un lavoro decente». È una sfida per la politica.
Sul lavoro però sarà bene aggiornare la nostra “cassetta degli attrezzi”. Non dell’accezione marxiana si tratta, né fordista della catena di montaggio, della ripetitività meccanica dei gesti o dell’antica bestiale fatica, dello sfruttamento dell’operaio-massa. Penso al lavoro come ricchezza sociale, come fattore produttivo oggi prioritario. Come risorsa essenziale, individuale e collettiva, motore dell’economia della conoscenza. Lavori fortemente intrecciati col sapere – altra risorsa essenziale – e mai disgiunti da esso, come professionalità, continuo aggiornamento, formazione, competenza. La lingua russa ci ha consegnato un memorabile detto popolare: «Vivere un secolo, imparare un secolo». È in questo cimento che il Pd declina il primo articolo della Costituzione e costruisce il nuovo “umanesimo del lavoro”. Il democratico-partito del lavoro chiede anzitutto sicurezza del lavoro. La sicurezza è essenziale. Non è accettabile che di lavoro oggi si possa morire. Non faccio ideologismi di maniera: propongo identitariamente una linea inflessibile, un tenace proponimento politico che produca risultati, non predicazioni. La differenza tra destra e centro-sinistra passa o no dal trattamento riservato dal governo Berlusconi al Testo Unico sulla sicurezza voluto dal governo Prodi? Ma sicurezza è anche costruire dighe contro la dilagante precarietà, e per fare questo c’è solo un modo: rilanciare una nostra antica idea, quella della piena occupazione. Le tutele assistenziali anti-precariato sono incapaci di reggere l’urto delle crisi. Serve una politica economica che faccia della piena occupazione uno dei suoi pilastri, anzitutto per equità sociale, ma non solo: la piena occupazione è soprattutto garanzia di libertà di scegliere la propria professione, è mobilità (quella voluta, cercata, non quella attuale forzosa, subita, precaria). Non è un sogno, è «un’utopia realizzabile», come diceva Tommaso Moro, è l’obiettivo prioritario di una vera economia della conoscenza che si fonda sulle risorse umane. È la sintesi ultima tra libertà ed eguaglianza. Si contrappone allo sbandamento originario di certa antica dottrina che, sbagliando, contrapponeva in modo giacobino diritti sociali e diritti individuali, ovvero uguaglianza e libertà.
Il lavoro è un diritto ed è un dovere. È palestra responsabilizzante. Fonda il dovere civico e sociale. Lavoro che si qualifica, si professionalizza, si intride di apprendimento e di sapere, fa crescere, forma, è terreno d’impegno, di merito. Non accetta il modello della destra del successo facile, vuoto, fatto di velinerie e di calciatori milionari, ribalta di una rappresentazione sociale che nega i valori della coerenza e serietà del risultato e del successo come esito della impegnata costruzione di se stessi.
Il Pd che assume il lavoro come valore fondante è il partito della società aperta. Della società che valorizza le capacità di ciascuno, che premia il merito, esalta i talenti, ed offre opportunità a tutti, sollecita il merito di tutti. Non uno di meno. Che sottrae la crescita sociale ai lacci dei privilegi e della resistenza dei corporativismi, della conservazione sociale, dei burocratismi, dell’iperstatalismo, dei vantaggi ingiustificati, in una libera e legittima competizione. Che punta sulla promozione umana ma combatte la competizione deregolata e selvaggia, il prevalere sull’altro e sugli altri senza merito né equità, l’abbandono a se stesso di chi non ce la fa, dei deboli, dei marginali, degli immigrati. In questo contesto, il sostegno sociale è soprattutto rimozione delle condizioni che generano discriminazione, è sostegno all’auto-promozione. È l’inveramento dell’articolo 3 della Costituzione.
Ripartire dal lavoro può restituire al Partito democratico il senso della propria missione e della propria novità.
L’Unità, 9 luglio 2009
1 Commento