«Yes We Camp» è la scritta che Obama e gli altri leader mondiali “esposti” nella vetrina dell’Aquila possono leggere da ieri all’uscita dell’ultima galleria dell’autostrada prima di entrare nella capitale del terremoto. Sì, siamo accampati. Suona così tradotta in italiano e riecheggia lo slogan della campagna elettorale del presidente Usa. La melodia è più triste, però. E parla del terremoto e delle false promesse, della vita dura nelle tendopoli ridotte a forni a microonde, dei 55mila sfollati, dei primi appalti finiti tutti ad aziende del nord. Versante est soprattutto. «Yes we camp». Nove lettere ritagliate su teloni di plastica bianca, ognuno è alto sette metri, punto esclamativo finale compreso. L’idea è dei comitati che si riuniscono nella sigla di “3,32” (l’ora della scossa del 6 aprile). La scritta viene portata alle 9 del mattino di ieri sulle falde della collina Roia. Dalle sue pendici la scritta sarà visibile dall’autostrada, dal cielo e finanche dalle tendopoli.
Nuova L’Aquila
La nuova l’Aquila, una città senza democrazia, dove l’unica voce che circola è quella del bollettino della Protezione civile. Vietato volantinare, fare assemblee, vietato entrare se non si ha il passi del residente. «E allora avanti, arrampichiamoci sulla collina, così anche i terremotati potranno sapere». Mattia Lolli, uno degli animatori del Comitato, lancia l’appello ai suoi. La forza a tutti la dà Martino, un ragazzo tedesco, che suona la tromba. Canzoni dell’anarchia e del movimento operaio, ma anche ariette classiche e una inaspettata «Tammurriata nera». «Yes we camp». «Contro il grande inganno. Un ragazzo snocciola le cifre: «In Umbria e nelle Marche gli sfollati erano 30mila, per la ricostruzione hanno avuto 7 miliardi, noi con 65mila sfollati, 5,7. Uno schifo». Pierluigi Tosone, avvocato, rappresenta il comitato Ara: «La storia delle casette raccontata da Berlusconi e Bertolaso è una truffa. A settembre non saranno pronte. Hanno individuato sette siti, ma solo dopo hanno fatto le verifiche e hanno scoperto che cinque di questi non erano adatti. L’unico cantiere avanti è quello di Bazzano, ma la verità è che questi villaggi sono dei veri e propri bubboni dal punto di vista urbanistico”.
Di questo discutono nel Parco Unicef di via Strinella diventato il quartier generale dei movimenti aquilani. Ma non chiamateli no-global, non confondeteli con gli altri, quelli che arriveranno all’Aquila il 10 per fare la loro manifestazione contro il G8. «Un rituale stanco». Parla Francesco Caruso, proprio lui, l’ex deputato di Rifondazione e l’ex leder del movimento versione napoletana e incazzata, e pronuncia parole sagge. «Qui si sta costruendo un movimento di massa, di terremotati che vogliono un ricostruzione pulita. Qui si possono sperimentare forme nuove e alternative di sviluppo. Non sciupiamo tutto col rituale dello scontro no-global poliziotto. E’ una cosa antica».
Sulla collina
«Yes we camp», dopo ore di fatica sulla collina, la scritta è pronta. Si vede dall’autostrada. Obama la vedrà. E se non vedrà quella ne è pronta un’altra. Nel pomeriggio i ragazzi vanno alla rotonda dove si dice passerà il Presidente Usa per srotolare un altro lunghissimo striscione. E domani (oggi per chi legge, ndr) arrivano le first ladies, visiteranno il centro storico. Che fare? “Portiamo le “last ladies”, le donne della città che vivono nelle tende e che non hanno voce. Perché Carla Bruni e la signora Michelle Obama non le fanno parlare con gli aquilani veri?” Alla fine si prende una decisione. «Andremo alla Villa dove arriveranno le first ladies e ci metteremo in mutande. Perché così ci hanno ridotti». «E hanno fatto a pezzi anche il nostro futuro», dice Fabrizio Panbianchi. «La ricostruzione finirà nel 2032 se tutto andrà bene, quando il mondo forse sarà su un altro pianeta». Idee, proteste, contromanifestazioni per ricordare all’Italia e al mondo che all’Aquila c’è stato il terremoto e la gente vive ancora nelle tende. «Yes we camp»: la vetrina è infranta.
L’Unità, 9 luglio 2009
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