Non stupisce che la decisione del Tar di vietare le operazioni di censimento all’interno dei campi nomadi, resa nota il primo luglio, sia stata accolta da un silenzio quasi unanime. Il torpore che, da un anno a questa parte, avvolge il Paese e il suo sistema di informazione, infatti, si manifesta sempre attraverso i medesimi sintomi: disattenzione, indifferenza e progressivo, accorciamento della memoria collettiva.
Risale appena all’estate scorsa l’infervorato dibattito sull’intenzione del governo di procedere all’identificazione e alla schedatura di tutti abitanti dei campi nomadi, minori compresi, attraverso rilievi segnaletici. Prima, all’inizio del maggio 2008, Palazzo Chigi, dichiarò lo stato d’emergenza in relazione alla presenza di tali insediamenti in Campania, Lazio e Lombardia. Poi, alla fine del mese, il presidente del Consiglio emanò l’ordinanza che delegava il prefetto di Roma a realizzare gli interventi necessari nel territorio di competenza. Applausi dalla maggioranza, Lega in primis, allarme nell’opposizione e oltre.
A denunciare la connotazione razzista della norma un’ampia rosa di voci autorevoli: la Chiesa, l’associazionismo, il Parlamento europeo, il prefetto di Roma. Quest’ultimo, nella persona di Carlo Mosca, annunciò che non avrebbe messo in atto una legge anticostituzionale e lesiva dei diritti dell’uomo. Secondo copione, tuttavia, il Governo andò avanti e si impose con la forza dei numeri. A Carlo Mosca successe un altro prefetto e Roma, come Milano, dallo scorso febbraio ha il proprio regolamento «per la gestione dei villaggi attrezzati per le comunità nomadi».
L’«emergenza zingari» sembrava così avviata a una felice conclusione, quando Davide lanciò la propria sfida a Golia. E, almeno in parte, vinse. La settimana scorsa il Tar del Lazio, infatti, ha accolto alcuni punti del ricorso contro l’«ordinanza del censimento» presentato dall’associazione European Roma Rights Centre Foundation, insieme a due abitanti di un campo alle porte della capitale, Herkules Sulejmanovic e Azra Ramovic, genitori di tredici figli. La sentenza, nelle parti di accoglimento del ricorso, rappresenta una profonda lezione di civiltà e di buonsenso, oltre a dare finalmente ragione a quanti da mesi denunciano l’immoralità di certi provvedimenti e la loro inconciliabilità con le direttive europee e internazionali. Il Tribunale amministrativo del Lazio ricorda anzitutto che nel nostro ordinamento, i rilievi segnaletici sono riservati a «persone pericolose o sospette» o a quanti «non sono in grado o si rifiutano di provare la loro identità» e costituiscono strumenti «invasivi della libertà personale» cui non si può ricorrere «nei confronti dei minori di età ed in assenza di una norma di legge che autorizzi il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici». Ossia, quanto per settimane ha ripetuto l’allora prefetto Carlo Mosca.
La sentenza poi interviene sulle disposizioni che disciplinano «il controllo degli accessi» ai campi da parte di un presidio di vigilanza. Sia il regolamento di Roma che quello di Milano prevedono, infatti, che le forze dell’ordine controllino tutti gli ingressi nei villaggi, sia degli abitanti che devono essere muniti di tesserino di riconoscimento, sia dei loro ospiti, da registrare in appositi registri. Norme che avrebbero trasformato i campi in una sorta di prigioni a cielo aperto. Negli anni passati esponenti dell’attuale opposizione, a cominciare dal sottoscritto, avevano auspicato più controlli sui campi nomadi, controlli che dovevano iscriversi in un quadro di riforme tese ad agevolare l’integrazione di tali comunità nella nostra società. Le «dogane» che la maggioranza tenta oggi di istituire si spingono ben oltre. Sottoporre i nomadi a un regime di ispezione continua e indiscriminata, infatti, è cosa ben diversa dal combattere la criminalità, che indubbiamente si annida in alcuni dei loro campi, con strategie lecite e democratiche. E il Tar non ha potuto ignorare questa differenza, la stessa che corre tra una politica seria sulla sicurezza e la campagna di paura e allarmismo alimentata ad arte dall’attuale governo. Le disposizioni sui campi nomadi, come la legge sulla sicurezza appena varata, rispondono perfettamente al diktat della tolleranza zero: annunci altisonanti senza alcun effetto concreto sui problemi del Paese. Dopo tanto chiasso, siamo al punto di partenza: la vita dentro i campi nomadi continuerà come prima e lo stato d’emergenza decretato dal Consiglio dei ministri un anno fa diventerà cronico. Una verità mascherata dal torpore che ci avvolge.
L’Unità, 8 luglio 2009