Lunedì nella Sala Umberto di Roma la politica ha sperimentato un altro modo di far teatro, allungando il lunghissimo elenco delle sue variazioni: sacro, profano, popolare, di corte, di massa, d’ombre, d’arte, dell’assurdo, d’avanguardia, illuministico, gesuitico, delle marionette e via fantasticando (la cultura è l’ordine dato alla fantasia, perché possa diventare fattore di crescita per tutti). La nuova forma teatrale sperimentata alla “Umberto” da Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi, entrambi di spettacolo e deputati governativi, è consistita in una recita antigovernativa, con l’intenzione di convincere il governo, se non a riparare il danno, almeno a ridurlo, anche simbolicamente: sicché si possa dire che il governo resta, sì, convinto che la cultura sia una spesa e non un investimento sia pur “marginale” nel nostro sistema economico; ma fa anche qualcosa per tenerne in vita una parte: diciamo nutrizione e idratazione, come da dogma. Alla “Umberto” qualcuno ha intravisto il teatro della contraddizione nella contraddizione, ma con molta grazia da parte degli attori, e con molta simpatia da parte nostra, spettatori e critici del dramma.
Dramma proprio nel senso di drammatico, perché se non arrivano al galoppo almeno i 30 milioni per fronteggiare l’emergenza, cioè per pagare le produzioni già in cantiere, a fine anno si chiude. “Allarme cultura”, dice da tempo alla camera Emilia De Biase, segretaria di presidenza.
È problema di fisica che si sostituisce alla politica: più la crisi cresce, più si restringe il Fus, il fondo unico per lo spettacolo istituito nel 1985 per aiuti pubblici al cinema e agli spettacoli dal vivo (teatro, strada, lirica, orchestre, danza, circo, eccetera). Adesso, mentre voi leggete, il punto è questo.
I fondi dati e in parte ritolti all’editoria, i fondi promessi e poi negati per lo spettacolo, annaspano nei flutti: scompaiono e ricompaiono aggrappati a mezzo salvagente. Tremonti smentisce il cavaliere, che dice che la crisi non c’è, e dice che la crisi c’è. Non solo non ridarà al Fus i soldi rivendicati, ma gli toglierebbe il salvagente, appunto i 30 milioni per completare le opere cantierate. A sua volta il ministro della cultura Bondi, impegnato in questi giorni a separarsi dalla moglie (coraggio, ministro, ci siamo passati e le assicuro che si sopravvive), ma soprattutto impegnatissimo a proteggere l’immagine del premier dalle dolcezze che i preti chiamano con definizione soft “libertinaggio”; Biondi, dicevo, se ne sta buono, intento a devastare come meglio non potrebbe il ministero dei beni culturali (invano i 500 direttori di musei italiani nel mondo l’hanno supplicato di non inventarsi una direzione generale del patrimonio, affidata all’ex direttore generale della McDonald). E tace, il tenero “trovatore” del Cavaliere e della Carfagna, di fronte alla Medusa Tremonti che lo paralizza coi suoi dinieghi; e trova conforto nel Colosso di Venezia, il Brunetta, che definisce teatro e opera lirica ozi per vecchi col pannolone. (Viva la Sagra della Salama da sugo ferrarese, ragazzi; o se preferite il sarcasmo di Escobar, da oggi «nei saloni del G8 a L’Aquila si proiettino non immagini d’arte italiana ma piatti di polenta»).
Succede perciò che alla “Umberto” ci si aspettava presenza e risposta bypartisan, che scuotesse il dissolvimento di Berlusconi, lo spappolamento di Bondi, la durezza “lacrime e sangue” di Tremonti. Ricordando anche che il governo Prodi aveva riportato il Fus a 500 milioni di euro, ridotti dai successori a 300: che sono pari a metà dei 140 sborsati prima che arrivassero i messi per il fallimento del comune di Catania. E ricordando che il testo Carlucci, integrato in commissione cultura, può rispondere a un’attesa di riordino dello spettacolo dal vivo che dura da trent’anni (c’è chi dice da sessanta).
E che erano state fatte solenni promesse a Napolitano, alla consegna dei David di Donatello. E che 200mila persone lavorano in una miriade di piccole aziende ai bordi del diritto del lavoro, contro le poche grandi, specie liriche, con personale inflazionato oltre i limiti della clientela. E che la nuova legge sul Fus, pronta, ripeto, in commissione, se non ha i fondi che il Tesoro continua a negare, è carta straccia, una legge quadro per governi che non avranno mai voglia di dipingere il quadro: preferendo polenta e salama da sugo, come s’addice all’Italia celtica, dove i finanziamenti alla cultura (editoria e spettacolo) sono precipitati allo 0,1 del prodotto nazionale.
Né serve “aprire” ai privati, come per gli enti lirici trasformati in fondazioni; giacché il privato finanzia solo se finanzia il pubblico, e se ci sono le detrazioni fiscali: modello “capitale d’avventura” made in Usa. Ma le detrazioni preferite in Italia sono quelle dei grandi evasori, ai quali si promette un altro “scudo” (il terzo) se riporteranno qualche manciata di euro nella penisola.
È finanza creativa. Dispiace a Barbareschi e Carlucci quanto a De Biase, Giulietti, Ghizzoni, Granata, e ad altri che amano lo spettacolo e pagano al botteghino. Forse, invece di convocare assemblee con sms, occorrerebbe preparare una manifestazione popolare, migliaia di uomini e donne della cultura, sul ripristino dei livelli finanziari del Fus, sui finanziamenti aggiuntivi alla legge degli spettacoli dal vivo, sull’editoria, e, se necessario, anche per corsi serali di alfabetizzazione dei celti di governo.
Europa, 8 Luglio 2009
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