La Germania non ha ancora un nuovo governo, a tre settimane dalle elezioni. Ma i tedeschi non sembrano preoccuparsi. I partiti potenzialmente coalizzabili con la Cdu della Mer-kel – socialdemocratici e verdi – continuano a incontrarsi e a confrontarsi. «Roba da Prima Repubblica» – direbbe qualche commentatore credendosi spiritoso. Ma non è affatto così. E’ il ritmo di chi sa che a Berlino è comunque garantita la continuità politica interna e l’influenza, anzi l’assertività della Germania verso l’esterno. Anche e soprattutto verso l’Europa, guardata ormai con circospezione. Continuità all’interno e assertività nei confronti dell’Europa è ciò che sta a cuore ai tedeschi. Per questo hanno scelto Angela Merkel, qualunque governo formi.
A fronte di questa Germania c’è un’Italia politica frenetica e infelice, con un governo volonteroso ma sostanzialmente impotente per poter fare scelte incisive. Solo una disinvolta incompetenza e una cattiva conoscenza della realtà politica può presentare le nostre «larghe intese» come una versione italica della grande coalizione tedesca. Manca l’ingrediente principale: una cultura politica solidale sulle grandi cose da fare in nome dell’interesse comune, al di là delle legittime differenze e competizioni di parte. Facile dirlo e predicarlo (lo fa tutti i giorni Enrico Letta), ma da noi ci vorrebbe nulla di meno che una rivoluzione morale.
Il confronto tra Italia e Germania oggi è un gioco crudele, ma istruttivo. Dobbiamo partire dal presupposto che ci troviamo davanti a due esperienze di democrazia.
Una funzionante, l’altra malfunzionante – ma sempre democrazie. Con crescenti tratti che si usa chiamare post-democratici, fatti di spinte populiste, partiti elettoralistici con seri problemi di leadership, invadenza del sistema mediatico. Ma anche su questo c’è differenza tra Italia e Germania: noi siamo paradossalmente più avanzati in «postdemocrazia». E’ stato il berlusconismo a inglobare in sé i caratteri postdemocratici, cucinati in salsa italiana, compresi i suoi cattivi odori. Quello tedesco invece è un sistema rimasto sostanzialmente tradizionale.
Userò due immagini forti. Quella tedesca è una fortezza democratica tenuta insieme da un solido sistema istituzionale, complesso nelle sue articolazioni (cancellierato, rappresentanza parlamentare e regionale, sistema elettorale che consente la coesistenza di «partiti popolari» tradizionali con nuove forze politiche mobili). Su tutto vigila la Costituzione rigorosamente interpretata e monitorata dalla Corte federale, che è il bastione portante della fortezza democratica. Beninteso: questo non significa affatto che in Germania ci sia il migliore dei possibili sistemi politici o sia esente da critiche anche severe. Ma a suo confronto la democrazia italiana appare un condominio di rissose fazioni, di istituzioni farraginose prive di autorevolezza e di antagonismi tra gruppi sociali sempre più schiacciati lungo linee di quella che un tempo si chiamava società di classe. In compenso c’ è un potenziale di mobilitazione raro da trovare in Germania
Ma una manifestazione come quella a Roma a favore della Costituzione sarebbe difficilmente concepibile in Germania. Non perché la Costituzione tedesca non sia il punto di riferimento centrale del sistema sociale e politico. Al contrario. Non perché non richieda aggiornamenti o «sapienti rinnovamenti» (Giorgio Napolitano). In Germania infatti sono frequenti e incisivi gli emendamenti. Ma il tutto avviene tramite normali procedimenti istituzionali. Questo naturalmente non esclude disapprovazioni più o meno diffuse di sentenze costituzionali.Ma, a mia conoscenza, non si sono mai verificate mobilitazioni di massa pro o contro articoli costituzionali o a proposito di minacce che investono la Carta come tale.
Oggi i due sistemi, tedesco e italiano, si trovano davanti agli stessi nemici, chiamati anti-europeismo (o anti-euro) e populismo. Ma anche qui, dietro le stesse etichette, ci sono contenuti diversi. Non ha senso mettere sullo stesso piano l’umore antieuropeista del M5S con il nuovo raggruppamento tedesco «Alternativa per la Germania». Il primo esprime la velleitaria umoralità di una protesta cavalcata da incompetenti, la seconda contiene in nuce un progetto operativo alternativo di de-costruzione europea, pericolosissimo proprio perché seriamente pensato.
La cancelliera Merkel ha vinto le elezioni anche perché ha proposto una gradita «narrazione» del successo del suo governo e della Germania nel ventennio precedente. Sì, anche nel caso tedesco si può parlare di «ventennio», sviluppatosi in senso inverso al nostro (a proposito: è singolare che nelle commemorazioni di questi giorni , «il ventennio» italiano sia ipnotizzato dai fatti e misfatti berlusconiani, lasciando in ombra i fallimenti del centro-sinistra che sono parte importante e responsabile del ventennio cronologicamente inteso…) .
La «narrazione» merkeliana del ventennio tedesco parte dalle sfide di Maastricht e dall’impegno della Germania per la ricostruzione delle aree orientali ex comuniste. Anni duri e impegnativi, condivisi con il comune progetto europeo, resi progressivamente più difficili dall’accresciuta competizione internazionale che fa scoprire improvvisamente la pesantezza e la relativa arretratezza del sistema tedesco («il malato d’Europa» secondo una delle tipiche perentorie definizioni dell’Economist). Ma poi – prosegue la «narrazione» – ecco il coraggioso governo di Gerhard Schroeder che introduce le riforme (Agenda 2010) che consentono alla Germania di riprendersi efficacemente, mentre il resto d’Europa rimane impantanato nelle sue debolezze strutturali. Poi esplode la terribile crisi del 2008 cui reagisce la Grande Coalizione guidata da Angela Merkel e dal suo valente ministro socialdemocratico Peer Steinbrueck. Questa linea prosegue poi con la politica del rigore nel successivo governo Merkel, con i liberali, tenendo testa agli inefficienti partner europei. E’ la stagione della Germania «egemone riluttante» (altra definizione dell’Economist) che prosegue tutt’oggi.
Questa narrazione, gradita ai tedeschi, è fatta di mezze verità. Cancella totalmente il fatto che la Germania ha tratto legittimamente e meritatamente vantaggi dalla costruzione delle regole post-Maastricht, soprattutto di quelle attinenti gli aspetti finanziari ed economici, ma in maniera sproporzionata rispetto agli altri membri dell’Unione. Quelle regole infatti con il passare degli anni e l’esplosione della crisi si sono rivelate insufficienti e inadeguate di fronte alla intensità e alla qualità dei problemi che hanno incontrato altri paesi meno solidi. Ma la politica delle riforme e del rigore imposta dalla Germania ha spesso usato, nella narrazione popolare, la tesi che i paesi (meridionali) sono renitenti (se non peggio) a fare quelle che vengono chiamate «le riforme» tout court, anche se incidono pesantemente e contraddittoriamente sul livello di vita dei cittadini.
Nessuno vuol togliere ai tedeschi quanto hanno meritatamente ottenuto. Ci si aspetta però in nome dell’Europa che si rendano conto che la mutata la congiuntura storica richiede da loro – in forza del loro peso oggettivo – una nuova forma di corresponsabilità comunitaria.
La partita è aperta. E’ sbagliato pensare che debba essere giocata come se fosse una partita Germania contro Europa. Anche se c’è qualcosa di vero in questa formula. Ed è un peccato che l’Italia non abbia la forza di fare la sua parte (come sembrò possibile per un momento nella breve avventura di Mario Monti). Il discorso ritorna alla estraneazione tra le classi politiche tedesca e italiana così lontane ormai per cultura politica, per stile comunicativo, per competenza. Ma se guardiamo alla cronaca quotidiana, le speranze che questa tendenza possa invertirsi, sono poche.
La Stampa 13.10.13