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“Il Nobel familiare di Alice Munro”, di Elisabetta Ray

Per molto tempo il New Yorker, la prestigiosa rivista americana, rispedì ad Alice Munro i racconti che lei inviava accompagnati da gentili appunti di rifiuto. Uno in particolare diceva: «La scrittura è molto bella, ma la tematica eccessivamente familiare». Alice però non si scoraggiò: quando aveva cominciato a scrivere, poco più che ventenne negli anni Cinquanta, con una casa, un marito e delle bambine nate o nascenti cui badare (e in seguito anche il lavoro alla libreria aperta a Victoria con il coniuge), aveva imparato a coltivare silenziosamente la sua vocazione, nei ritagli di tempo, senza parlarne troppo in pubblico e soprattutto senza aspettarsi molto dal mondo editoriale. Nella sua prima raccolta di racconti, “La danza delle ombre felici”, uscita quando non era più così giovane, a trentasette anni, nel 1968, la sua tematica familiare era ben salda e non ci rinunciò neanche nei racconti che scrisse in seguito, un’altra dozzina di sillogi, due delle quali uscite dopo una sua prima dichiarazione, nel 2006, di non voler più scrivere. Non era abituata a scoraggiarsi, cresciuta in una fattoria della regione canadese dell’Ontario con un padre, Robert Laidlaw, che avrebbe voluto essere scrittore e che invece allevava senza troppo fortuna visoni, e con una madre che sognava per sé un futuro di cultura e raffinatezza e invece doveva giorno dopo giorno fare i conti con le ristrettezze economiche e le fatiche della vita di campagna. Né rinunciò alla sua vocazione quando si trasferì con il primo marito Jim Munro dall’altra parte del Canada, a Vancouver, dopo aver lasciato gli studi universitari. Ma soprattutto non si scoraggiò quando editori e agenti letterari di cui si fidava le dissero che per avere successo e farsi amare dal pubblico doveva smettere di scrivere racconti e mettere in piedi un romanzo. Lei ci provò e ci riprovò, ne pubblicò anche una specie, “Lives of Girls and Women”, (in realtà anch’esso collage di racconti), ma poi decise che mai avrebbe rimunciato alla forma della short-story, perché quella non era soltanto la sua misura ma anche la cifra interiore con cui afferrava il mondo. Come uno di quei mistici medievali che vedevano lo spazio del cosmo tutto intero riflesso nel piccolo fuoco di uno specchio concavo.

Ma l’interesse di Munro per la vita familiare non ha niente a che vedere con un culto della famiglia stessa o dei ricordi. Ognuno dei suoi racconti è situato in un territorio che, se spesso coincide con quello del lago Huron nell’Ontario della sua infanzia, è anche una contrada leggendaria e un’eterna frontiera, in cui gli esseri umani lottano con l’ambiente mostrando la loro inadeguatezza e la loro fragilità. Nell’Ontario Munro ci è tornata a vivere – negli anni Settanta, con il secondo marito – e a camminare cinque chilometri al giorno fino a quando è stata abbastanza in forze per farlo, come a verificare la consistenza geologica, terrestre delle sue storie. Che sono spesso storie al femminile, sorelle con sorelle, amiche, rivali, ma soprattutto madri con figlie. Nelle trame di questa scrittrice – che Cynthia Ozick ha definito un Cechov canadese e che invece si è formata, per sua stessa ammissione, amando la narrativa di altre grandi scrittrici come Eudora Welty o Carson McCullers o Flannery O’Connor – c’è sempre qualcosa che viene improvvisamente a turbare l’ordine banale della vita quotidiana, manifestandone il rovescio tragico. E quasi sempre, nella miniaturizzata tragedia in scena nelle sue short-story, campeggiano figure di madri, protagoniste di una interminabile storia arcaica che tornano a trovare le figlie dall’aldilà, le maltrattano nell’aldiqua e le salvano in sogno come nel celebre e bellissimo “Il sogno di mia madre”. Come se le vicende umane procedessero non di padre in figlio, ma soprattutto di madre in figlia.
«Sentivo che le donne potevano scrivere di cose particolari, di ciò che è marginale», ha detto in una intervista alla “Paris Review” del 1994. Solo che nei suoi racconti ciò che è marginale smette di essere tale e ciò che è comune improvvisamente si rivela straordinario, come nella “Danza delle ombre felici”, in cui una bambina mentalmente handicappata, durante un modesto e misero intrattenimento di una vecchia insegnante in un afoso pomeriggio paesano, si siede al pianoforte e trasporta gli astanti ammutoliti e turbati nel mondo leggendario di Orfeo e Euridice e dei loro disperati viaggi di morte e resurrezione. In questo racconto come in tanti altri la storia è raccontata da un io, una voce che parla confidenzialmente così che noi non possiamo evitare di ascoltarla. Ma quella prima persona narrativa non è né segno di autobiografia né puro espediente discorsivo: quell’io è il luogo in cui la regola si trasforma in eccezione. E anche la più semplice delle vicende della everyday life diventa Storia, perché per Alice Munro la Storia non sono gli avvenimenti registrati dalle cronache e poi dalla storiografia ma ciò che s’incarna nelle creature umane e nelle loro avventure e disavventure, i sogni, le passioni, i malintesi, i fallimenti le gioie e le invisibili – agli occhi del mondo – rare vittorie. Per questo con la sua «tematica eccessivamente familiare», come le scrisse quell’anonimo redattore del “New Yorker” mezzo secolo fa, è diventata una scrittrice ovunque popolare e degna ora di Nobel: perché in quel familiare così personale marginale e particolare ognuno trova qualcosa di se stesso.

Il SOle 24 Ore 12.10.13