I due emendamenti Berselli- Vizzini, approvati dal Senato, in sede di conversione del decreto legge sulla «sicurezza pubblica», imboccano una strada gravida di conseguenze di assai dubbia legittimità costituzionale, sul piano dei rapporti tra potere politico e giustizia. Anche se il problema riguarda specialmente il secondo dei due emendamenti.
Il primo di essi, infatti, si limita a prescrivere una sorta di corsia privilegiata, soprattutto per i processi concernenti i reati di maggiore allarme sociale, ovvero con imputati detenuti, stabilendo che il giudice debba assegnare loro «precedenza assoluta». Sicché, in sostanza, tutto si risolve in una prescrizione di tipo organizzativo, ispirata al buon senso, e del resto già dettata in situazioni analoghe.
L’altro emendamento, invece, impone una sospensione obbligatoria per legge, della durata di un anno, rispetto a tutti i processi (purché relativi a fatti commessi fino al 30 giugno 2002) già pervenuti alla fase dell’udienza preliminare o del dibattimento, con la sola eccezione di quelli per i quali è prevista la suddetta regola della priorità di trattazione.
E’ proprio questo meccanismo di sospensione automatica dei processi per numerosi reati anche gravi (dalle rapine alle estorsioni, dai sequestri di persona a varie forme di associazione per delinquere, quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione, a molti altri) ciò che suscita le maggiori perplessità. Perché, così, con un tratto di penna e in modo meccanico, il legislatore finirebbe per bloccare l’esercizio della funzione giurisdizionale, anche con riferimento a processi magari già pervenuti a conclusione.
E tale sospensione dovrebbe operare indipendentemente dalla circostanza che, in concreto, di fronte a quel certo organo giudicante, vi sia la necessità di assicurare «priorità assoluta» ad altri processi ritenuti in astratto meritevoli di precedenza (con il risultato che, anche nell’assenza di una siffatta necessità, tutti i processi diversi da questi ultimi dovrebbero comunque rimanere fermi per un anno).
Si tratta di una conseguenza davvero paradossale, che appare fortemente sospetta di incostituzionalità. Sia in rapporto al principio di obbligatorietà dell’azione penale (che vuol dire anche obbligo di celebrare i processi già avviati); sia in rapporto all’esigenza di «ragionevole durata» dei tempi processuali; sia, ancora, in rapporto al principio di eguaglianza (a causa dell’arbitrarietà della scelta legislativa riguardante i processi da sospendere). Nello stesso senso, del resto, si sono già espressi non solo l’Anm, ma anche gli avvocati delle Camere penali, ed è probabile che non sarà molto dissimile l’atteso parere del Csm. Inutile aggiungere che queste conclusioni discendono dall’irragionevolezza in sé del congegno di «blocco» radicale che si vorrebbe introdurre rispetto a determinati processi, e quindi prescindendo della constatazione che fra i processi destinati a essere sospesi rientrerebbe anche quello per corruzione giudiziaria nell’«affare Mills-Berlusconi».
La circostanza che il premier Berlusconi abbia voluto sottolineare, anche in sedi istituzionali, una sorta di collegamento tra le due vicende (parlando in veste di presidente del Consiglio, ma usando anche gli argomenti tipici di un imputato) non fa che sottolineare una grave anomalia dei tempi che stiamo vivendo. Poiché molti non hanno ancora compreso che anche gli uomini politici sono sottoposti alla giustizia (soprattutto per i reati comuni) e devono, ove occorra, tutelare i loro diritti, con ogni più ampia garanzia, esclusivamente nelle aule giudiziarie. Non, dunque, attraverso nuove leggi.
Il Corriere della Sera