Parlare di crisi al buio non è mai stato più giustificato di oggi. È tanto al buio che non si sa neppure se formalmente si aprirà, visto che sono percorribili sia la strada delle dimissioni del presidente del Consiglio che quella di un semplice rimpasto. Ma questo è niente. Si sa ben poco di quale potrà essere lo scenario politico nel caso in cui la crisi non si risolvesse e si andasse alle elezioni.
Fanno francamente sorridere le cronache che parlano di qualche leader intento a scrutare i sondaggi, quando dovrebbe essere evidente che nessun sondaggio è affidabile in un momento come questo, nel quale le variabili indeterminate sono troppe, dal risultato della discussione interna al Pd alla tenuta di un partito come il Pdl, umiliato sino al punto di vedere la sorte dei propri ministri decisa in una riunione cui non partecipava il segretario.
Nella prospettiva del sistema istituzionale, però, qualche punto fermo è ragionevole indicarlo. Anzitutto, non si può dimenticare che l’articolo 67 della Costituzione è tuttora in vigore e che, quindi, il mandato parlamentare è libero. Lo è perché quella stessa disposizione costituzionale vuole che i parlamentari, pur nella diversa appartenenza politico-partitica, rappresentino la nazione, i suoi interessi generali.
Questa legislatura mostra bene perché la libertà del mandato abbia una funzione di garanzia costituzionale: quando ci sono partiti nei quali la dialettica interna manca, o non è regolata in forme autenticamente democratiche, nei quali basta la telefonata o il tweet del leader per definire una linea politica, agli elettori deve essere garantito che i loro eletti recuperino sul terreno del dialogo parlamentare il confronto pluralistico che è stato cancellato sul piano della vita partitica. E questo vale, ovviamente, anche di fronte alle crisi di governo. Un’altra certezza è che, anche qualora la legislatura non si salvasse e si andasse ad elezioni anticipate, non si potrebbe votare con l’attuale legge elettorale. Le ragioni sono almeno due. La prima è la più nota: una legge gravemente sospetta di illegittimità costituzionale e che consente l’attribuzione di un premio di maggioranza abnorme non può continuare a determinare la costruzione della rappresentanza politica in un Paese di democrazia consolidata come l’Italia. Lasciamo pure stare il rischio che la Corte costituzionale la dichiari illegittima. Anche se questo non accadesse le cose non cambierebbero, perché il problema politico di fondo è che l’opinione pubblica non reggerebbe una nuova tornata elettorale con regole così diffusamente detestate. La seconda è che la legge Calderoli rischia di produrre ancora una volta un risultato politico paradossale. Sappiamo tutti, infatti, che alla Camera il premio è nazionale, sicché chi lo conquista ha la maggioranza assoluta (anzi, qualcosa in più). Sappiamo anche, però, che al Senato è regionale, sicché alla lotteria del premio regionale può capitare di vincere o di perdere, e magari di perdere dopo che si è vinto quello nazionale alla Camera. I tormenti della legislatura in corso dipendono anche da questa irrazionalità di fondo della legge, che riconosce premi che sono, allo stesso tempo, eccessivi e inutili. La logica del premio, infatti, è che lo si dà per governare. Che senso ha dare premi quando non è detto affatto che una maggioranza di governo riesca, così, a formarsi?
Una soluzione radicale del problema si potrebbe avere solo con una riforma costituzionale che trasformasse il Senato in camera delle autonomie e lasciasse alla Camera dei deputati il rapporto di fiducia con il governo. Tuttavia, già a Costituzione invariata qualcosa si potrebbe fare, almeno correggendo l’errore che si commise nel 2005, quando si disse che al Senato il premio avrebbe dovuto essere regionale perché la Costituzione prevede che quella camera sia eletta – appunto – «su base regionale». Come, inascoltato, qualcuno di noi costituzionalisti aveva osservato già allora, la Costituzione è perfettamente rispettata se il premio ha una misura nazionale, ma viene semplicemente distribuito su base regionale.
Una crisi al buio, insomma. Ma le compatibilità costituzionali e della razionalità politica sono luci segnapasso che potrebbero evitare di cadere nel baratro (o di non riuscire ad uscirne, visto che, probabilmente, nel baratro ci stiamo già).
L’Unità 30.09.13