Lo spread tra i rendimenti dei titoli italiani e dei titoli tedeschi riprenderà a galoppare accompagnato da una crescente perdita di fiducia sui mercati e da un sensibile impatto negativo sulla stabilità del nostro stock di debito. In questo modo si vanificano in larga misura le speranze di agganciare la ripresa internazionale, spingendo l’Italia verso un periodo di prolungata stagnazione. Potrebbe essere questa, in estrema sintesi, la fotografia dei rischi economici molto gravi legati all’apertura della crisi di governo decisa ieri da Silvio Berlusconi con le dimissioni dall’esecutivo dei ministri del Pdl e rendendo immediatamente operativa la decisione dei parlamentari del centrodestra di disertare le aule del Parlamento.
Il rischio concreto è rimettere in discussione non solo i risultati raggiunti fin qui, ma anche la formidabile opportunità di voltare pagina rispetto agli ultimi cinque
anni di crisi. Sembra proprio una scelta ai limiti della follia.
Per spiegare il perché la posta economica in gioco di una crisi di governo sia oggi così elevata si deve guardare alla peculiare fase di transizione attraversata dalla nostra economia e alla particolare rilevanza che le misure del governo assumono nel facilitare o meno questo passaggio.
Come ha ribadito il Fondo monetario internazionale nel Rapporto pubblicato l’altro ieri l’aggiustamento fiscale realizzato dall’Italia, in questi ultimi due anni, è stato davvero di enormi dimensioni. Ci ha permesso di rientrare nel gruppo dei paesi europei «virtuosi» con una serie di vantaggi legati a questo «status». Senza sottovalutare la ritrovata credibilità e il ruolo da protagonista recuperato dal nostro Paese in campo europeo e internazionale.
Ma il riposizionamento fiscale ha
prodotto costi davvero pesanti per l’economia reale – come dimostrano anche i dati più recenti – con una recessione produttiva e aumenti della disoccupazione come non si erano mai verificati da decenni. Di qui l’esigenza di una nuova fase che è stata in qualche modo avviata dal governo Letta in questi mesi. Si è cercato di ridefinire gli obiettivi della funzione di politica economica del nostro Paese in chiave di rilancio della crescita e lotta alla disoccupazione, pur nel rispetto dei vincoli di bilancio fissati dall’Europa. Sono state adottate una serie di misure, più o meno efficaci, ma che si sono scontrate da subito con la scarsità di risorse finanziarie a disposizione, dati i margini di bilancio molto ristretti. Tanto più che la flessione del Pil di quest’anno, prevista nell’ordine dell’1,7 per cento, non ha fatto altro che ridurre ancor più questi spazi. Di qui il tornante decisivo di scelte del governo da assumersi proprio
in questi giorni e destinato a culminare alla metà di ottobre con la presentazione della legge di Stabilità. Innanzi tutto per evitare uno sforamento del bilancio pubblico quest’anno, dato che i valori tendenziali sono già oltre il tetto del 3 per cento, pur se di poco. Anche per fronteggiare le reiterate prese di posizione che sono giunte dall’Europa.
E poi – ed è l’appuntamento più importante – per agganciare le opportunità di ripresa che si stanno materializzando a livello europeo e internazionale. E lo strumento chiave doveva essere proprio la legge di Stabilità. Il governo aveva già deciso di imperniarla su una strategia di rilancio economico, a partire dal taglio del cuneo fiscale. Inteso quest’ultimo come riduzione sia del prelievo sui redditi da lavoro sia della componente lavoro dei costi delle imprese. Interventi, certo costosi, da graduare nel tempo e da finanziare con una
revisione mirata e strutturale di alcune voci del bilancio pubblico.
È evidente che si tratti di passaggi tutti cruciali per il nostro Paese non solo per tentare di uscire dalla crisi, ma per cominciare a aggredire quelle carenze strutturali che sono alla base del ristagno e delle insopportabili disuguaglianze accumulatesi in tutti questi anni nella nostra società. Passaggi ai quali l’Italia rischia ora di presentarsi senza più la sponda fondamentale di un governo per l’irresponsabile decisione presa ieri da Berlusconi e da tutto il centrodestra. E i prezzi più elevati rischiano di pagarli tutte quelle famiglie e imprese che hanno sopportato i maggiori sacrifici in questi cinque lunghi anni di crisi. Ma tutto questo, a chi ha dimostrato ancora una volta di anteporre i propri interessi e utilità personali alle vere esigenze del Paese, interessa evidentemente molto poco o addirittura nulla.
L’Unità 29.09.13