Silvio Berlusconi ha aperto la crisi contro l’Italia. Non si tratta soltanto di una crisi di governo. Siamo pericolosamente vicini a un collasso delle istituzioni democratiche, mentre nella società si diffonde un impasto di sfiducia, paura, perdita di competitività e di diritti. Questa crisi segnerà uno spartiacque: dalla seconda Repubblica purtroppo non si può uscire con una, pur limitata, condivisione.
Il governo Letta, benché privo di un accordo politico, è stato l’ultimo tentativo di gettare insieme un ponte verso un nuovo sistema, di porre le precondizioni di cambiamenti necessari.
Ma con Berlusconi è impossibile costruire. Non ha il minimo senso di responsabilità nazionale. Non gli interessa che a pagare i suoi ricatti siano i cittadini più deboli, le imprese che cercano di resistere alla crisi, le famiglie già colpite dalla perdita del lavoro e dai tagli al welfare. Così come, con cinismo, ha imposto che l’esenzione dall’Imu del 10% più ricco del Paese fosse a carico dei cassintegrati e delle imprese, oggi ha usato l’aumento dell’Iva – da lui provocato – per coprire la vergogna del ritiro dei ministri, motivato dalla ribellione eversiva ad una sentenza di condanna definitiva.
Qualcuno dirà che tutto era già scritto e che non bisognava avventurarsi sul terreno delle intese parlamentari con il Pdl. La discussione resterà aperta a sinistra. Ma in punto di partenza non può che essere il Paese, cioè quest’Italia declinante che aumenta il distacco dall’Europa e che rischia di precipitare in termini di produzione, di lavoro, di reddito, di solidarietà, di senso civico. Le elezioni non hanno dato alcuna maggioranza. Grillo ha giocato per Berlusconi e le larghe intese, fregandosene del cambiamento e cercando di lucrare su una rendita di opposizione. Il Pd non è stato capace di liberarsi dalla tenaglia, anzi alle elezioni presidenziali ha tentato persino di suicidarsi. E il leader del Pdl si è seduto sulla riva del fiume, anche perché sapeva che alcuni suoi processi stavano arrivando a sentenza.
La legislatura più incerta è cominciata così, tentando di aprire una strada per l’Italia prima ancora che per i partiti della strana coalizione. C’era una domanda di governo che veniva dai settori più deboli del Paese e dalle forze più esposte alla competizione interna ed internazionale. C’era una domanda di riforme, perché non si può più tornare al voto con questa legge elettorale. Se le nuove elezioni dovessero vanificare ancora le volontà degli italiani, sarebbe una catastrofe: svanirebbe ogni residuo di fiducia interna, scapperebbero gli investitori esteri e lo spettro populismo si allungherebbe sulla politica. Ma tutte le ragioni, che sono state all’origine del governo Letta, non sono venute meno. Anzi, sono diventate più grandi. L’Italia ha bisogno vitale di cambiamenti profondi, di riforme serie, di un nuovo clima sociale.
La reazione di Berlusconi alla sentenza ha colpito il governo alle fondamenta, nella sua stessa credibilità. Le dimissioni dei parlamentari Pdl annunciate mentre Letta era a Wall Street a convincere gli investitori a scommettere sull’Italia sono state un colpo alla schiena. In uno Stato di diritto le sentenze si rispettano. Come si rispettano le leggi: un condannato per reati gravi come la frode fiscale si ritira dagli uffici pubblici senza neppure bisogno di un voto sulla decadenza. Questo accade ovunque c’è una Costituzione. Su questo è stato chiaro fin dal primo giorno che il governo Letta non avrebbe fatto sconti, né baratti.
Il governo Letta non è mai stato un’assicurazione per Berlusconi. Ora è stato dimostrato. La presenza del Pdl in maggioranza era semmai per il Cavaliere l’avamposto da cui lanciare l’affondo finale. Ma ora è arrivato il momento della verità. E non solo lui, ma l’intero suo partito e i suoi elettori sono chiamati a una scelta dalla quale può dipendere il prossimo futuro. È chiaro che nulla sarà più come prima. Dopo questo strappo, Berlusconi si è autoescluso dal confronto sulla transizione economica, sociale e istituzionale del Paese. Si è chiamato fuori dall’arco costituzionale, per dirla con parole del passato. Ora bisognerà vedere se il Pdl reggerà e se dalla sua rottura emergerà una nuova destra, europea e costituzionale, disposta a costruire le basi dell’Italia di domani.
Enrico Letta non deve mollare. E il Pd deve sostenerlo nel prossimo passaggio cruciale in Parlamento. Sarebbe demenziale a questo punto giocare di sponda con Berlusconi per arrivare ad elezioni immediate, senza cambiare neppure la legge elettorale. Letta e il Pd devono sfidare la destra, devono riproporre il tema di un governo fino alla fine del 2014 a quanti nel Pdl non accettano l’oltraggio all’Italia. Certo, la scena dei ministri Pdl licenziati come domestici sorpresi a rubare non offre molte speranze: ma sappiamo, e vediamo, che alcune coscienze sono turbate.
Letta e il Pd devono riaprire la sfida anche con Sel e anche nel campo dei grillini. Certo, sarebbe irresponsabile proseguire la legislatura con una maggioranza formata da qualche scilipoti del Pdl e/o dei Cinque stelle. Ma Letta sia chiaro in Parlamento: non ci saranno salvacondotti per Berlusconi come per nessun altro nelle sue condizioni; le riforme elettorali e istituzionali sono necessarie per costruire un nuovo sistema politico; la ripresa europea si riaggancia con politiche di equità e con politiche fiscale concentrate sul lavoro (altro che sconti Imu ai più ricchi). Se la maggioranza avrà una sua solidità politica (compreso il progetto di una destra alternativa a Berlusconi), si punti al traguardo del 2014 con il Cavaliere all’opposizione. Se i numeri saranno esigui si abbia almeno la dignità di cambiare la legge elettorale prima di tornare al voto. È una battaglia decisiva per l’Italia. Ma sapevamo che la battaglia decisiva sarebbe passata dentro questo governo.
L’Unità 29.09.13
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