È esploso il caso Telecom Italia e d’improvviso un paese, che per anni ha nascosto le proprie responsabilità nei confronti del proprio sviluppo, scopre quanto rilevante sia disporre di grandi reti, di grandi imprese e progetti industriali. Nessuno sembrava voler porre il problema quando il gruppo Agnelli pretese di governare l’allora privatizzata Telecom con quote marginali.
O quando oscuri imprenditori bresciani dettero l’assalto al cielo della grande finanza, o quando Pirelli si impossessò dei grandi asset, anche immobiliari, del campione delle telecomunicazioni.
Le grandi privatizzazioni degli anni novanta, che portarono alla chiusura dell’Iri, vennero realizzate- sia pur sotto forte pressione europea – con un chiaro disegno strategico; bisognava disporre di grandi gruppi privati ma regolati pubblicamente, da lanciare sul nuovo mercato europeo che si stava creando con l’euro. Le privatizzazioni dei grandi servizi pubblici dovevano permettere del resto una liberalizzazione dei servizi, con l’accesso di nuovi operatori, così da far aumentare la concorrenza ed aumentare i vantaggi per i consumatori.
Ma i consumatori sono anche cittadini ed aldilà di più o meno consistenti vantaggi di costo del
singolo servizio vi è anche un disegno del futuro del paese che va salvaguardato, cosicché in tutti i casi di servizi a rete è sempre stato posto il problema, fin dall’inizio, di distinguere proprietà, regolazione e gestione della rete dalla proprietà e gestione dei servizi che i diversi operatori avrebbero, in un futuro più o meno prevedibile, potuto offrire. La proprietà pubblica della rete, o almeno una sua chiara regolazione pubblica, era la garanzia che quella vertebra fondamentale dell’ossatura di un paese, che rivendica la propria autonomia, rimaneva fra i beni della comunità, o almeno rimaneva sotto garanzia pubblica. La stagione delle privatizzazioni finì bruscamente nel 2000, quando appunto la Telecom cadde sotto il governo fragile degli Agnelli e dell’allora salotto buono dell’economia italiana e il Tesoro assunse la posizione di proprietario di portafoglio delle sue residue proprietà, e nei confronti di Telecom di osservatore muto dei continui rivolgimenti interni a proprietà sempre fragili – e visti i risultati, certamente non efficienti – mentre diveniva sempre più difficile scorporare la rete, che restava il principale asset “tangibile” di una società che continuava ad indebitarsi. Oggi si temono gli spagnoli, che del resto arrivano con un carico debitorio non migliore di quello di Telecom, così come la deficitaria Air France viene temuta come partner dell’ancora agonizzante nuova Alitalia. E qui si rivela chiaramente come alla fragilità delle imprese, già portabandiera degli interessi nazionali, si aggiungano le fragilità sia nazionali che europee nella formulazione di una politica industriale adeguata alla nuova Europa dell’età dell’euro.
In questi anni, nonostante le molte entrate competitive, tutte le grandi società di servizio telefonico in Europa hanno mantenuto le loro bandiere nazionali, Telecom Italia, France Telecom, British Telecom, Deutsche Telecom, Telefonica spagnola, così come nel trasporto aereo la nuova Europa è rimasta legata ad Air France, Lufthansa, British Airways, Iberia e per quanto ci riguarda all’Alitalia dei «patrioti». Sarebbe toccato all’Italia, che fra tutti era il più fragile dei giocatori europei avanzare in Europa un bisogno di andare aldilà dei campioncini nazionali per andare verso nuove aggregazioni capaci di giocare fortemente sul nuovo grande mercato interno europeo e insieme sul mercato globale.
La regolazione delle reti nazionali, la loro effettiva integrazione, l’apertura dei mercati, proprio perché i terreni su cui cresceva la liberalizzazione del servizio erano presidiati dalle autorità nazionali ed europee, erano l’ altro tassello di una integrazione reale dell’economia, di cui proprio noi dovevamo giovarci più di altri. La garanzia delle reti, per una maggiore efficienza dei servizi consolidati e l’apertura a nuovi servizi, sia di rete fissa che mobile, diveniva tanto più necessaria per un paese, come il nostro che rischiava, come purtroppo si è visto oggi, di venire spaccato in una parte minoritaria, capace di giocare autonomamente in Europa e nel mondo perché più integrata di prima al corpo centrale europeo, ed una vasta parte del paese, che è oggi ancora più marginale di prima, e per il quale proprio la disponibilità di reti di comunicazione, di telecomunicazione, di energie tradizionali ed alternative, costituisce la base infrastrutturale per un ipotesi di sviluppo, che superi la troppo lunga stagione della recessione. Mentre nella vicenda Telecom si alternano gli atteggiamenti di stupore ai «non sapevo», cresce nel paese un bisogno di sviluppo consapevole, in cui il richiamo alla politica industriale non sia inutile mantra, ma un disegno di futuro, di cui produzione, lavoro, ricerca, beni pubblici siano solida base.
Il disegno della nostra politica industriale riparte anche da questa vicenda, dalla riscoperta di quei beni, che – proprio perché pubblici – possono far crescere il mercato e la garanzia dei cittadini, generando opportunità di crescita per l’intero paese.
L’Unità 26.09.13