L’Assemblea del Pd è finita male. Senza certezze sulle regole, tra sospetti incrociati, con uno statuto sbagliato ma tuttavia irriformabile a breve, e soprattutto con uno scontro che si spinge fino a contestare la legittimità stessa del congresso. Diciamo la verità: ieri, nei momenti di confusione è riapparso lo spettro delle presidenziali, quando i tradimenti a Prodi e Marini hanno portato il Pd sulla soglia della dissoluzione. Eppure nella giornata di ieri ci sono stati anche i discorsi dei quattro candidati alla segreteria: discorsi sul Pd e sull’Italia, sul governo di oggi e sui progetti futuri. Hanno composto, nell’insieme, una potenziale base di partenza per quel cambio politico, per quel passaggio a una nuova stagione, di cui la sinistra ha bisogno e l’Italia ancor più. Peraltro gli interventi di Matteo Renzi e di Gianni Cuperlo, i principali sfidanti, hanno cominciato a delineare davanti a quella platea i termini di un confronto vivace, non scontato, persino con qualche importante punto di convergenza.
Ma sulle procedure è scattato il riflesso autolesionista. Le procedure stanno diven- tando (ovunque, non solo nel Pd) una malattia della politica: surrogano il conflitto reale, sono al tempo stesso prova di impotenza e fonte di conflittualità infinita. Se la buona politica è progetto, visione sociale, sintesi e mediazione, la bagarre sulle regole è il teatro degli azzeccagarbugli. Lo statuto del Pd è un testo in larga parte sbagliato – come ripete Guglielmo Epifani – spesso inservibile alla circostanza concreta. Non è un caso che, ogni qualvolta debba essere applicato, ha bisogno di deroghe o emendamenti. Non è un caso che proclama la coincidenza tra segretario di partito e candidato-premier, ma il solo tesserato Pd diventato premier è stato un vice segretario, Enrico Letta.
Tutto ciò imporrebbe umiltà, ricerca paziente di un compromesso, rispetto del limite del diritto, senza la pretesa di trasferire principi ideologici in norme cogenti. In ogni caso, se lo statuto del Pd non basta a fare un congresso in cui tutti si riconoscano, si deve trovare un accordo per superare gli ostacoli (in attesa di scrivere uno statuto degno di questo nome). Questa è la matassa che il gruppo dirigente del Pd deve dipanare. È che ieri non è riuscito a fare. Speriamo che la prossima riunione della direzione arrivi dove ieri l’assemblea non è arrivata. Tuttavia, il confine è segnato. E oltre il confine c’è il baratro per il Pd. Nessuno può sfilarsi dalla responsabilità di una mediazione, perché a rischio sono la sopravvivenza del partito e il suo rinnovamento futuro. Se qualcuno pensa di fare il furbo, o di vestire i panni della vittima, o di ingannare gli avversari interni, è chiaro che sta giocando ancora co- me hanno giocato i franchi tiratori e i tiratori franchi alle presidenziali.
Il Pd è il solo partito esistente. Ma è fragile. Per ragioni politiche e culturali, non solo organizzative. Dover trovare di volta in volta regole provvisorie (come già accadde quando Bersani favorì contra legem la partecipazione di Renzi alle primarie) è molto più faticoso che avere uno statuto funzionante. Ma tant’è: il passaggio è obbligato. Di procedure peraltro sarebbe bene parlare il meno possibile: nel senso che il negoziato dovrebbe essere il più rapido possibile. Non si è ancora capito che l’autoreferenzialità è per la rappresentanza politica una zavorra or- mai insostenibile e una prova di inaffidabilità? Le priorità sono altre, sono nella società che cambia, e non possono sfuggire ad un corpo collettivo.
Tra queste priorità c’è anche l’azione di logoramento che Berlusconi sta attuando ai danni del governo Letta. È la sua risposta alla sentenza definitiva. È il tentativo del condannato di riconquistare per via politica quella legittimazione che l’ordinamento gli ha tolto. Ma si tratta di una battaglia aperta: non è detto che Berlusconi riesca ad ottenere le elezioni anticipate a febbraio-marzo del 2014. Se il Pd reagirà con serietà e forza, se Letta insieme al Pd saprà sfidare il leader del Pdl, anticipando i suoi ricatti su Imu e Iva e mettendolo con le spalle al muro sulle principali scelte di politica economica e sul- le riforme, Berlusconi potrebbe non trovare le complicità per far saltare il tavolo.
Questo tema è già dentro il percorso congressuale del Pd. Nessuno sa come finirà la partita. Ma sarebbe un suicidio, se Berlusconi trovasse nel Pd sponde sulla linea della rottura. La stabilità non è mai un bene in sé. L’Italia però ha bisogno di costruire in questi mesi alcune premesse del cambiamento futuro: l’obiettivo è portare il Paese ad una condizione migliore nel suo rapporto con l’Europa, e alle riforme istituzionali ed elettorali necessarie per consentire un voto utile. Così si potrà progettare un cambiamento più profondo. Come può il Pd rinunciare a questo obiettivo?
A Berlusconi del cambiamento futuro non interessa nulla. Se il Pd sarà capace di intestarsi questa politica e questa interpretazione del governo Letta, potrà sopportare meglio anche l’eventuale rottura di Berlusconi. Se invece tutto resterà appeso ai ricatti del Pdl, il Pd rischia di importare al suo interno ulteriori lacerazioni, come già dimostrano le tensioni tra Letta e Renzi. Un congresso è anche conflitto. Ma in un partito, anche durante il conflitto, sono chiare le ragioni comuni. Se vengono meno, non c’è più il partito.
L’Unità 22.09.13