La ratifica della Convenzione di Istanbul, riconoscendo la violenza di genere come violazione dei diritti umani e ponendo agli Stati il vincolo concreto del raggiungimento dell’uguaglianza tra i sessi de jure e de facto, ha rappresentato un primo passo fondamentale per il contrasto alla violenza contro le donne. Ora occorre implementare il corpus normativo per prevenirne i fattori di rischio, agendo a livello strutturale e, quindi, a lungo termine. È per questo che il decreto sul femminicidio deve segnare solo l’inizio dell’implementazione e della piena attuazione delle obbligazioni assunte con la ratifica di Istanbul.
Il raggiungimento dell’obiettivo ultimo di Istanbul, ossia lo sradicamento di ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti delle donne in quanto donne, comporta necessariamente un approccio integrato rispetto agli innumerevoli ostacoli che si frappongono al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale delle donne, con l’adozione di misure in materia penale, ma anche amministrativa, economica, sociale.
Dalla questione del cognome paterno – «retaggio di una concezione patriarcale», secondo le parole dello stesso Presidente della Corte costituzionale – alle misure sul piano dell’educazione scolastica e della formazione, dal ruolo di informazione e media al finanziamento dei centri antiviolenza e di una rete di sostegno e tutela per le donne: tutta l’azione istituzionale e della società civile deve caratterizzarsi come gender mainstreaming. Se attuare Istanbul significa quindi agire sul piano politico, culturale, sociale, economico – in linea con i principi già sanciti nei più diversi consessi internazionali – si capisce come ciò abbia condizionato l’azione del governo nell’adozione del decreto femminicidio e debba condizionare quella del Parlamento nella conversione in legge.
Se la violenza contro le donne, come la Convenzione certifica, è un fenomeno strutturale, non si può rispondere con misure emergenziali né affrontare la questione in termini di ordine pubblico e «la messa in sicurezza delle don- ne»: parola impropria anche perché questo approccio finirebbe per rinforzare quegli stereotipi di genere, radicati quanto dannosi, che vittimizzano la donna quale soggetto vulnerabile.
Le donne non sono da tutelare e pro- teggere in quando deboli, ma in quanto discriminate. Istanbul definisce chiaramente la donna come «soggetto vulnerabilizzato» dalla violenza e richiama gli Stati non ad un obbligo di difesa delle donne «deboli», ma ad un dovere di rimozione degli ostacoli all’effettiva e sostanziale uguaglianza nelle differenze. In questa prospettiva, laddove il 40 per cento delle donne uccise nel 2012 ha subito precedenti violenze da chi poi l’ha uccisa, si è imposta l’«urgente necessità» di fermare la violenza di genere prima che essa giunga all’irreparabile e così si è fatto straordinariamente ricorso ai poteri normativi dell’esecutivo. Ciò non toglie, però, che il decreto sul femmincidio, costituendo una prima implementazione di Istanbul, possa rappresentare un’occasione utile ad avanzare ancora lungo il percorso contro la violenza di genere, comunque indissolubilmente connesso agli stereotipi, alle rappresentazioni culturali, alle abitudini gerarchiche che si innestano ancora nei rapporti di coppia, alle necessità di educazione e formazione, alla difficoltà di finanziarie servizi e assistenza.
Nell’ambito della discussione parlamentare in sede di conversione del decreto, allora, si deve provare a rispondere, almeno in parte, alle richieste avanzate dalla società civile, per introdurre meccanismi di analisi, monitoraggio e produzione di politiche pubbliche secondo un approccio integrato; e per con- seguire effettivamente il raggiungimento degli obiettivi di azione del Piano ordinario nazionale antiviolenza, stanziando adeguate risorse finanziarie, e con una programmazione almeno triennale.
L’Unità 21.09.13