Il tema dei conti pubblici italiani e di conseguenza il nostro rapporto con l’Unione Europea si sta facendo sempre più delicato.
L’Europa sembra sempre meno disposta ad accettare uno sforamento del nostro deficit pubblico e minaccia l’introduzione della procedura di deficit eccessivo. Il governo in realtà è sostanzialmente immobile, sia per ovvie ragioni politiche (l’affaire Berlusconi), ma anche perché non sembra sapere come trovare risorse per finanziare la cancellazione dell’Imu e la rinuncia all’aumento dell’Iva. Dovrebbe essere chiaro a tutti ormai che risorse, nel contenitore in cui il governo le sta cercando, non ve ne sono. A meno di un altro di quei giochi di prestigio in cui la politica italiana eccelle e di cui è meglio fare a meno: un aumento di una qualche altra tasse più o meno nascosta, un trasferimento fuori bilancio di una qualche spesa o una vendita fasulla di proprietà statali (alla Cassa Depositi e Prestiti di solito).
È il contenitore ad essere sbagliato: risorse disponibili attraverso inasprimenti fiscali o tagli lineari alla spesa pubblica non ve ne sono più. Addirittura la lotta all’evasione sembra aver toccato rendimenti decrescenti. Occorre agire seriamente sulla spesa identificando e strozzando le inefficienze. Sono ormai anni e anni che andiamo ripetendo queste cose. Sta diventando rapidamente troppo tardi. Non è un caso che buona parte dei tentativi di spending review degli ultimi anni si siano arenati. Per quanto le inefficienze siano tante e ben distribuite nell’amministrazione pubblica, dietro ad ogni inefficienza vi sono famiglie e imprese. Il proverbiale forestale calabrese non ha fatto nulla di male, ha cercato il miglior lavoro disponibile. Allo stesso tempo l’economia italiana non può permettersi dipendenti pubblici sotto-utilizzati. Restiamo all’esempio del forestale. Tagliare le inefficienze si può fare bene solo in un mercato del lavoro vivace, cui l’exforestale abbia accesso. Ma un mercato del lavoro vivace richiede un mercato del credito che finanzi imprese private che lo possano assumere, possibilmente in Calabria. E richiede naturalmente un controllo del territorio che assicuri il rispetto dei diritti di proprietà, che è un problema serissimo in larga parte del paese. E poi naturalmente minori tasse su lavoratori e imprese (il “cuneo”), che possono oggi essere solo conseguenza di tagli di spesa. Per non parlare di istruzione e ricerca nel lungo periodo. Insomma, tutto si tiene in economia. E quando finisce per essere troppo tardi diventa necessario agire su tutto simultaneamente, purtroppo con costi sociali maggiori.
La situazione che ho dipinto è assolutamente drammatica. Lo è anche perché le vie d’uscita che ci piace pensare esistano, la svalutazione del cambio, una improvvisa generosità della Germania, non sono affatto realistiche. E comunque sarebbero nella migliore delle ipotesi dei semplici palliativi. La situazione in cui ci troviamo (da vent’anni
ormai) si riproporrebbe in modo forse anche peggiore di qui a pochi anni. La tendenza a incolpare l’Europa o l’Euro per questa situazione è una reazione abbastanza naturale, ma non per questo meno grave. I proclami alla sovranità nazionale (della moneta, della politica fiscale, e così via) in pericolo di fronte all’Europa o ai malefici mercati sono, lasciatemelo dire, sonore idiozie. Nessuno attenta alla nostra sovranità: si tratta di creditori che cercano di riottenere ciò che ci hanno prestato. Come mai solo la nostra sovranità è in pericolo e non quella della Svezia, paese che ha iniziato negli anni 90 una riforma profonda del proprio sistema economico riducendo tasse e spesa pubblica in maniera incisiva, pur mantenendo un sistema di protezione sociale da far invidia a chiunque in Europa.
Potevamo farlo anche noi. I nostri problemi erano già ben chiari a chiunque avesse gli occhi aperti. Molti di questi pensavano che l’entrata nell’Euro, proprio in quanto limitazione della sovranità monetaria del paese, potesse aiutare nell’attuazione delle necessarie riforme. Ex-post è chiaro che non ha funzionato. Ma solo chi non abbia alcun rudimento di logica (non parlo di logica economica, ma di logica tout court, capacità di ragionare in modo corretto) conclude da questo che sia meglio uscire dall’Euro. Le riforme economiche che erano necessarie 10 anni fa lo sono ancora di più oggi. Piuttosto utilizziamo al meglio i vincoli alla sovranità che Bruxelles ci offre e che abbiamo sprecato negli ultimi 10 anni.
Questo esclusivamente nell’interesse del nostro paese, non dell’Europa o della Germania. Si badi bene, non è in questione la sovranità popolare, su cui non si discute in democrazia. Se la maggioranza del paese vuole fare default, che così sia. Ma è il sistema politico-istituzionale che traduce la volontà popolare in politiche pubbliche ad essere profondamente malato: il paese è chiaramente in maggioranza contrario a questa legge elettorale, ma non si riesce a cambiare; il paese è largamente per una riduzione dei costi della politica, ma nulla accade; il paese è soffocato dalle tasse, vota in buona parte per chi promette di abbassarle, ma non si fa altro che alzarle; il paese è (almeno per il momento) ancora a favore dell’Euro e dell’Europa, ma stiamo facendo di tutto per uscirvi o per starne ai margini, da osservati speciali. E se i tagli di spesa e le riforme sono bloccati da lobby potenti e vocali (non parlo solo dei dipendenti pubblici, ma delle banche, dei professionisti, dei taxisti, dei pensionati…) questo non significa che il paese non starebbe dietro ad un processo di riforma alla svedese, se ben strutturato e ben delineato. Se per arrivarci dobbiamo sopportare un commissariamento da Bruxelles, non sarà piacevole, ma meglio di quello che stiamo osservando.
La Repubblica 20.09.13