Anche chi giudica positiva l’azione del governo ne vede i limiti e le precarietà, per le frequenti minacce, di pessima qualità, con cui i partiti ne ostacolano l’azione. Lo ha detto lo stesso Letta ieri a Torino: non è vero «che non stiamo facendo niente», facciamo la «fatica di tenere insieme le istituzioni», prendiamo decisioni che «non sono elementi rivoluzionari ma cambiamenti di tendenza». Se vogliamo un governo che cambi alla radice il Paese, come sarebbe necessario, deve mutare il terreno politico che supporta l’esecutivo.
Di solito in democrazia questo si fa andando a elezioni. Molti si domandano perché non ci andiamo, magari fra qualche mese per fare la Legge di Stabilità e ritentare una riforma elettorale. La domanda fa capolino anche fra chi tifa per Letta e digerisce bene l’idea di «larghe intese». Ma sembra che l’economia, con le sue urgenze nazionali e internazionali, non ci permetta crisi di governo e urne. Per affrontare il problema politico pagheremmo un eccessivo costo economico. Come economista mi chiedo se questo è vero.
Al momento mi rispondo che lo è, ma che è importante capire in che senso. Anche perché, come cittadino, non mi piace l’idea che l’economia ricatti la democrazia politica e congeli il suo funzionamento.
Se potessimo riaprire a breve la competizione elettorale fra partiti dotati di vera consistenza e chiare linee programmatiche, penso che, nonostante tutto, l’economia ce lo permetterebbe. L’economia italiana ha ancora «dati non buoni», come ha detto Rehn, ma ha fatto una correzione sostanziale della finanza pubblica, ha grandi potenzialità ampiamente riconosciute, alcuni punti di eccellenza, un’importanza essenziale per l’equilibrio europeo. Sia i mercati che Bruxelles ci darebbero il tempo necessario per fare le scelte politiche che servono per governare anche con qualche decisione che Letta chiamerebbe «rivoluzionaria». L’economia non guarderebbe tanto a chi le vince. Il panorama internazionale è ricco di esempi di come la fiducia economica possa benedire governi di destra o di sinistra, maggioritari o di coalizione, basta che siano politicamente ben sostenuti, anche da compromessi, purché chiari. Se potessimo sperare in elezioni risolutive non ci sarebbe ragione economica per rimandarle.
Il vero problema è che non c’è l’offerta politica per fare elezioni risolutive. La carenza di offerta politica è più grave dell’orrore della legge elettorale. Nell’editoriale di ieri Elisabetta Gualmini ha usato l’espressione giusta: «la politica è in default». Quando un’impresa è in default non si può chiederle di produrre senza ristrutturarla. Chiedere alla politica italiana di affrontare oggi crisi di governo ed eventualità di elezioni a breve significa sostenere costi economici enormi, nel breve e nel lungo periodo. Anche perché è proprio il terreno economico, più banalmente concreto di altri, dove spicca l’inconsistenza dell’offerta politica. Forse che fra Vendola, Fassina e Renzi, presi uno per uno o comunque raggruppati, sta spuntando un programma economico della sinistra? E forse che a destra, dove i leader del futuro sono ancor meno individuabili, si va molto più in là del solito abbassar le tasse, che ovviamente piace a tutti? Tutti vogliono vincere il rigorismo dell’Europa, semplificare le leggi, eccetera, ma soprattutto semplificare velleitariamente i problemi. Se si accorgono di dir troppo le stesse cose si affrettano a trovar pretesti per litigare e distinguersi. Se qualcuno ha una proposta precisa gli manca la credibilità per venderla. E’ un clima dove una campagna elettorale lascerebbe spazi sconfinati al populismo più spregiudicato, che sporcherebbe la propaganda di tutti i partiti e inciterebbe all’astensione o a voti di protesta pericolosi per il funzionamento del Parlamento.
E’ a questo spettacolo, non al tentativo in sé di risolvere con nuove elezioni l’inghippo politico prodotto dalle precedenti, che l’economia reagirebbe male, dall’interno e dall’estero. L’economia non sta ricattando la politica ma non le perdonerebbe di far finta di non essere in default.
Perciò, come sembrava esser stato pattuito fin dall’inizio del governo Monti, bisogna che mentre questi governi di emergenza tamponano le catastrofi e accennano a «cambiamenti di tendenza», la politica risolva il suo default, i partiti si diano una struttura e leadership convincenti, decidano i punti dove divergono e chiedono agli elettori di scegliere e quelli dove convergono e non fanno sceneggiate per divergere. Per risolvere questo default non bastano tre mesi. Occorre almeno tutto il prossimo anno, come hanno chiesto Napolitano e Letta sperando addirittura di vedere alcuni aggiustamenti della Carta. E’ un periodo che va usato bene, mantenendo una distanza di braccio fra l’azione di governo, molto concentrata sulla politica economica, e quella delle forze politiche che si riorganizzano e riordinano le regole del gioco. E’ una distanza di braccio che non viola la democrazia, perché il Parlamento rimane sovrano e il governo sa di non poter far rivoluzioni. Ma è una distanza che chiede di non strumentalizzare la politica economica più delicata e difficile, interferendo con proposte approssimative e ricatti illusionistici, per far demagogia in assenza di idee su come animare una vera competizione democratica. La quale ricomincerà quando il default sarà risolto.
Nel frattempo la fiducia dei mercati e il giudizio dell’economia guarderanno di più, paradossalmente, alla qualità della ristrutturazione politica che a quella delle misure economiche che il governo di emergenza, approfittando del fatto che lo tengono fuori dai bisticci partitici e correntizi, riuscirà a far approvare. Sarà un anno economicamente delicatissimo, fra i tassi che risalgono anche in Germania, la congiuntura che stenta anche in Cina, le banche da risanare, la Legge di Stabilità, la Presidenza italiana dell’Ue. Ma se la destra, la sinistra e il centro capiscono che debbono chiarirsi prima di tornare a litigare, il governo che abbiamo è in grado di manovrare con competenza e buon senso nelle acque difficili dei prossimi due o tre semestri.
La Stampa 14.09.13