Con tutti gli avvocati che si ritrova nel libro paga e con le affollate truppe di legali che ha portato con sé in Parlamento, Silvio Berlusconi avrebbe dovuto schivare con maggiore leggerezza le temute insidie provenienti dalle Procure. E invece i suoi azzeccagarbugli non ne combinano una giusta. La legge Severino, che ora inguaia sul serio il capo della destra, l’hanno votata, e contribuito a scriverla, proprio i suoi fiduciari. Solo a frittata fatta le schiere di difensori privati, ricambiati con un bel seggio, sono state capaci di accorgersi che si trattava di una tagliola pronta ad acchiappare la carne viva del Cavaliere, divenuto ormai pregiudicato.
Anche nella giunta del Senato i suoi rappresentanti hanno seguito una condotta a dir poco maldestra. Dapprima hanno raffigurato l’organismo politico di Palazzo Madama come un autentico organo giudiziario. E, nel corso delle sue sedute, hanno ritenuto legittimo ventilare il ricorso alla Consulta, per rigettare la manifesta incostituzionalità di una norma ritenuta retroattiva. Hanno, per questo preteso ruolo giudicante della giunta delle elezioni, reclamato la rimozione immediata dei membri che avevano tradito la loro funzione di giudici super partes e annunciato in pubblico il voto favorevole alla decadenza del condannato. E però, proprio quelli del Pdl, smentendo così la conclamata natura giudicante dell’organo, hanno inutilmente preteso che il Pd annunciasse il voto in giunta secondo una perversa logica di maggioranza, quella che suggerisce di salvare con il seggio del Cavaliere anche la vita del governo Letta.
Subito dopo questa sceneggiata, che mescolava fumose interpretazioni giuridiche con opache ragioni politiche, i consiglieri del Cavaliere, compiendo una giravolta radicale, hanno scomodato la Corte di Strasburgo, nella supposizione che occorresse avvalersi del parere espresso da una sede politica extranazionale, al cospetto della quale denunciare i diritti gravemente minacciati del loro leader. Vista l’insipienza tecnica dei suoi relatori, incapaci di districarsi tra le pregiudiziali, i preliminari, l’estrema risorsa cui appellarsi, nell’intento di salvare Berlusconi, per la destra rimane comunque il fantasma del popolo. Quello che ha già votato in massa per il Cavaliere in passato e quello che forse tornerà in futuro a ribadire un sostegno incondizionato all’Unto del Signore in nuove elezioni plebiscitarie.
Dietro queste furie distruttive c’è l’azione nefasta di una cultura populista, stigmatizzata già da Aristotele. Nel libro quarto della Politica egli scriveva che i populisti «criticano i magistrati sostenendo che giudice deve essere il popolo. Di conseguenza tutte le magistrature si sfasciano perché dove le leggi non governano non c’è costituzione». Pur di assecondare il capo, la destra è disposta a stravolgere ogni legalità, a piegare la Costituzione, a spezzare la vita parlamentare, a bloccare qualsiasi ricomposizione di uno stabile sistema politico. Il fatto è che non esistono soluzioni giuridiche che si rivelino efficaci nell’affrancare Berlusconi dalla tenaglia che lo stringe in maniera inesorabile tra decadenza, incandidabilità, interdizione.
Anche la crisi di governo, aperta solo per tenere fede a una cieca volontà di ricatto, produce dei guai inestimabili per il Paese in declino senza però riuscire a spalancare una reale via di fuga che si riveli efficace nella restituzione di una agibilità politica a Berlusconi. La caduta dell’esecutivo, e la battaglia elettorale vissuta come un gran conflitto attorno al destino già segnato di Berlusconi, non restituisce certo al Cavaliere la fedina penale pulita e quindi la possibilità di essere nuovamente eletto a furor di popolo. La follia della crisi non ha contropartite politiche davvero godibili: il capo è comunque fuori gioco. Nessuno può recuperarlo nella gran gara per la leadership di governo. Nella competizione dovrà comunque rimanere ai margini del potere.
Le macerie che la destra intende produrre, per il mero gusto della dissoluzione di ogni ordine politico sono il viatico più sicuro per il commissariamento immediato dell’Italia. La perdita della sovranità, e l’aggravamento della crisi sociale, sono la sola conseguenza preventivabile della proclamazione della crisi di governo come schiaffo dato per la mancata soluzione ai guai penali, davvero irresolubili, del Cavaliere. Anche dopo la crisi dispiegata, per Berlusconi non si intravvede comunque alcuna fuga possibile verso la libertà. Si avvertono invece solo i fuochi della Grecia e gli ordini severi impartiti dai volti truci dei commissari d’oltralpe che cantano il de te fabula narratur per un Paese ridotto allo stremo e per sempre in ginocchio. Inespiabili paiono le responsabilità storiche di una destra incapace di scegliere tra le pretese personali di Berlusconi e le necessità irrinunciabili della nazione.
L’Unità 11-09-13