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“Il ritorno della diplomazia”, di Vittorio Zucconi

Ora Barack Obama ha una via d’uscita dalla trappola siriana nella quale si era rinchiuso. E questa via passa per Mosca. È un’onorevole ritirata quella che Vladimir Putin gli offre. Potrebbe essere raccontata addirittura come una vittoria e le prime reazioni di Washington sembrano accoglierla con un sospiro di sollievo. Con la proposta di domandare ad Assad la consegna e il controllo internazionale degli arsenali di armi chimiche e, quindi, di impedirne l’uso contro i ribelli, Mosca ha utilizzato un classico stratagemma tattico della storia russa: ritirarsi oggi, per battersi meglio domani. Salvando la faccia e l’onore.
La “Marcia della Follia”, come Barbara W. Tuchman definì la spinta inerziale e irresistibile che conduce alle guerre, ha rallentato il passo e ciò che ancora pochi giorni or sono sembrava inevitabile, oggi diventa almeno più lontano. In questo dialogo a distanza fra Mosca e Washington, che John Kerry, il segretario di Stato, e Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri russo, hanno cominciato scambiandosi segnali, c’è per la prima volta l’ipotesi di una soluzione non violenta. Di un esito che consenta a Obama di vantare il successo della pressione americana senza dare un ordine d’attacco che palesemente non voleva dare, visto che da settimane avrebbe potuto farlo senza chiedere il permesso a nessuno. Molto più che “riluttante”, il capo dello stato americano aveva detto, con il proprio comportamento, di essere un guerriero scettico delle proprie stesse parole.
Fingendo di avere recepito una proposta siriana, che invece è nata proprio a Mosca, se non a San Pietroburgo ai margini della inutile sceneggiata plenaria del G20, Putin ha dimostrato di avere compreso che l’isolamento di Obama lo avrebbe costretto a fare quello che in realtà Obama non voleva e che un presidente americano chiuso all’angolo dalle proprie parole non avrebbe potuto non fare. Ma non è altruismo, né impeto pacifista, ad aver spinto il russo a intervenire. È un pragmatico calcolo, politico e strategico.
Da un’azione militare americana contro il regime siriano, Putin non avrebbe nulla da guadagnare e molto da perdere.
Anche lui, come Obama, era rimasto intrappolato nelle proprie parole, promettendo di non restare indifferente a un assalto contro quell’Assad che è l’ultimo Stato cliente ancora rimasto alla Russia dopo la fine della Guerra Fredda.
Putin aveva garantito rifornimenti militari, aiuti economici e finanziari, a una Siria colpita da missili Usa e anche lui, nel caso non avesse mantenuto le promesse, avrebbe perduto la faccia o rischiato un’escalation faccia a faccia con gli americani. E se il dittatore siriano fosse caduto sotto i colpi dei missili Cruise e dei droni, il rischio di una vittoria del fondamentalimo islamico in Siria sarebbe cresciuto, dando ulteriore forza a quei gruppi che Mosca reprime ferocemente nelle regioni caucasiche.
La crisi, e il pericolo di azioni militari, non si sono dissipati completamente per effetto di questo “Lodo Putin”. Hanno aperto una possibile via d’uscita dal labirinto nel quale, per quella debolezza che tanto spesso conduce al palliativo della forza, Obama si era smarrito dopo il quasi ultimatum della “linea rossa”. La sospensione della marcia della follia ha una scadenza, i sette giorni indicati da Kerry per le resa delle armi chimiche da parte di Assad. E, come nel caso di Saddam che respinse le ispezioni Onu, esattamente dieci anni or sono, sarà la razionalità, sarà l’istinto di conservazione di un dittatore a dire l’ultima parola.
Ma la grande novità sottintesa di queste ore è che, da oggi, non soltanto gli Stati Uniti, ma anche la Russia, sono direttamente chiamati in causa nella ricerca di una soluzione che soddisfi l’esigenza principale, quella di sottrarre a Bashar al Assad i depositi della “atomica dei poveri”, dei gas.
Ora Damasco, che si è detta pronta a eseguire l’ordine di consegnare i propri arsenali alla comunità internazionale per la loro distruzione, non deve più soltanto rispondere a Obama, ma anche a Putin.
Nell’atteggiarsi a man of peace, a uomo di pace che cerca una terza via non violenta di uscita al duello fra Damasco e Washington, il presidente russo è involontariamente divenuto un potenziale “uomo di guerra”, visto che gli sarebbe difficile, fra sette giorni, accusare di bellicosità gli americani se Assad ciurlasse nel manico.
Già dieci anni or sono, nelle giornate che condussero alla follia irachena del marzo 2003, la diplomazia russa si era agitata per convincere Saddam Hussein a mostrarsi accomodante e non dare a Washington il pretesto finale per l’invasione. La mediazione fallì, il raìs iracheno si rinchiuse nella propria intrattabilità suicida e Mosca si lavò le mani dell’operazione “Iraqi Freedom” abbandonando Saddam al suo truculento e scontato destino. Ma se ora Assad si mostrasse meno allucinato del defunto raìs iracheno, se capisse che in questa iniziativa di fatto congiunta russo-americana c’è l’ipotesi, per lui, di sopravvivere e di scampare, per ora, al castigo per i due anni di orrore inflitto – non soltanto con i gas – alla propria nazione, anche il Parlamento americano troverebbe il modo per evitare l’umiliazione internazionale della Presidenza e negare il sì all’attacco. Basterebbe sfornare una risoluzione che autorizzi il bombardamento nel caso Assad non ottemperi alla richiesta di consegnare gli arsenali per placare l’America recalcitrante e per salvare Obama dalla propria solitudine.

La Repubblica 10.09.13