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“Tasse più alte sull’alcol per i fondi all’istruzione”, di Lorenzo Salvia

La tassa sul vizio o il vizio delle tasse? In attesa di trovare una risposta, l’elenco di quello che gli americani chiamano soft paternalism, paternalismo moderato, si allunga anche da noi. L’ultima idea, almeno per il momento, è quella di aumentare le accise sull’alcol per trovare i soldi da mettere nel decreto per la scuola che il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare lunedì. Il governo è diviso tra favorevoli e contrari. Non si sa ancora se gli euro necessari verranno proprio da birra e liquori, lasciando stare il vino perché va bene il paternalism, ma siamo pur sempre il primo produttore al mondo. In ogni caso la proposta è sul tavolo. A dimostrazione che quando lo Stato va a caccia di nuove entrate, c’è sempre più spesso la tentazione di spostare il mirino dal contribuente semplice al contribuente vizioso. Alcol, sigarette, slot machine: una battaglia per la salute pubblica, certo. Ma anche un modo per far cassa subito, e senza troppe proteste, in un momento di ristrettezze.
Le sigarette elettroniche hanno resistito a vari assalti. Ma alla fine hanno ceduto pure loro: dal primo gennaio scatterà quell’addizionale del 58,5% che secondo i produttori ucciderà un settore che aveva appena conosciuto il suo boom. In pratica è un inseguimento. Dopo aver aumentato per anni le accise sui tabacchi, lo Stato stava incassando meno proprio perché molti fumatori erano emigrati in massa verso la nicotina elettronica, sostanzialmente tax free. Da gennaio il fisco riacciufferà anche quel milione e mezzo di convertiti, e magari qualcuno di loro tornerà al tabacco tradizionale. Stato etico, e in qualche caso dietetico. Il governo Monti aveva pensato a una tassa sulle bibite gassate, come già fatto in Francia e in alcuni Stati degli Usa, dall’Arkansas alla Virginia. E sul modello delle cosiddette fat tax, le tasse sui ciccioni, che vanno dall’imposta sulle patatine in Ungheria a quella sui dolci in Finlandia. Non è solo il frutto della fantasia di chi deve far quadrare i conti pubblici, operazione sempre più difficile in tempo di crisi. Ma una vera e propria moda internazionale. Tutti i governi del mondo sanno che aumentare le tasse non è mai popolare. Ma sanno anche che l’operazione può essere un po’ meno impopolare se ci si concentra su quei comportamenti che, a torto o a ragione, vengono considerati vizi. Con buona pace dei tecnici e delle loro obiezioni: la tassa sui vizi non è equa né verticalmente, perché pesa più sui poveri che sui ricchi, né orizzontalmente, perché discrimina alcuni prodotti.
Stesso discorso per i giochi e le scommesse, un filone d’oro non solo per le aziende del ramo ma anche per le casse pubbliche. E vero bancomat usato per finanziare gli interventi di soccorso di ogni sciagura nazionale. Di un aumento delle tasse a loro carico si era parlato anche per compensare la cancellazione della prima rata dell’ Imu. Poi è finita in un altro modo, con l’accordo sulle vecchie multe che fa scendere da 2,5 miliardi a 620 milioni di euro la somma che devono pagare le società che gestivano le slot. Ma il settore resta osservato speciale, nel mirino ogni volta che si devono trovare le famose coperture. In fondo anche il più innocente dei vizi è stato tartassato. La stangata arriverà persino sulla pausa caffè, quella da Fantozzi, con i colleghi d’ufficio davanti alla macchinetta nel corridoio. Da gennaio l’Iva sui distributori automatici passerà dal 4 al 10%. E il vizio meno innocente? Anche se a lungo inapplicata, la porno tax esiste in Italia dal 2002. Riguarda film e video con «scene contenenti atti sessuali espliciti e non simulati». La pagano i produttori, il consumo per il momento resta esentasse. Anzi no. Era il 1997 quando venne alzata dal 10 al 20% l’Iva sulle riviste pornografiche. Non bastò la protesta del Codacons: «Basta. È’ una vera e propria tassa sulla masturbazione».

Il Corriere della Sera 07.09.13

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