Con le conclusioni del G20 di San Pietroburgo siamo ripiombati tra gli spettri della guerra fredda. L’attacco americano contro la Siria pare ormai imminente. La Russia minaccia di reagire. Le parole di Obama e Putin somigliano drammaticamente a quelle della crisi di Cuba nel 1962. E nel teatro tragico del Medio Oriente tutto fa pensare che l’incendio divamperà più forte, più ingovernabile, più distruttivo per le persone, per le comunità, per le culture. L’intervento militare, con la sua scia di morte, non è mai «la» soluzione.
Come ha detto Romano Prodi a l’Unità, anche quando l’azione militare sembrava avere alle spalle una ragione etica e un più nitido obiettivo politico – in Iraq, in Afghanistan, in Libia – il bilancio finale è sempre stato spaventosa- mente negativo. Non solo per i costi umani, comunque inaccettabili. Ma persino per i costi politici. Figuriamoci ora a quali rischi andiamo incontro, vista la confusione delle prospettive che sono davanti all’annunciato raid in Siria.
La giornata di preghiera e di digiuno indetta da Papa Francesco è diventata così, oltre il suo significato religioso, il punto di raccolta dell’umanità che dice no alla guerra. Anzi, che vuole dire sì alla pace. Che vuole farsi costruttrice di pace. Nel mondo globalizzato la politica sta diventando sempre più impotente, sempre più sottomessa alle logiche di potenza, siano esse dettate dalla finanza, dai mercati, dalle forze militari e strategiche, dalle centrali terroristiche. È arrivato il tempo di invertire la rotta. Di ricostruire la sovranità degli uomini e delle comunità. Di spezzare la spirale della guerra. Solo il dialogo, la convivenza, il diritto, la soluzione politica sono compatibili con la vita e il futuro delle donne e degli uomini. Anche in Siria si deve imboccare la strada della soluzione politica, non quella militare.
Ciò non vuol dire, in alcun modo, tollerare o sottovalutare lo sterminio compiuto con i gas tossici. È stato un atto di barbarie. Un delitto contro l’umanità. Pensare alla morte di tanti innocenti è una ferita che sanguina in ciascuno di noi. Quell’atto va sanzionato, punito. Ma ripristinando il diritto internazionale, non sommando uno strappo a un altro strappo. Le Nazioni Unite restano la speranza di un governo mondiale. Non possono essere ridotte all’inerzia, svuotate, abbandonate ai margini della politica di potenza.
Può una giornata di digiuno invertire la rotta? Può avere tanto valore? Il realismo dice di no. Ma è la speranza che porta a dire di sì. Spes contra spem, ripeteva Giorgio La Pira. La politica degli uomini è orientata al cambiamento. E la politica è possibile solo sperando contro le aspettative realistiche. La verità è che la politica contiene in sé una trascendenza. Uno sguardo al futuro migliore che si vuole costruire, ad un domani che non riguarda solo noi stessi, ma i nostri figli e nipoti. Dobbiamo costruire la pace. E vigilare su di essa. Ricostruirla quando va in crisi. E mettere in gioco noi stessi, il nostro essere popolo, e nazione, ed Europa quando la pace è a rischio.
L’appello del Papa, al quale hanno aderito donne e uomini di tutte le fedi, credenti e non credenti, sarà oggi un atto di riscossa per fermare le guerre. Per dare voce ai sentimenti più profondi. Per gridare la pace. Per cominciare un cambiamento da noi stessi. C’è una dimensione spirituale del digiuno – preghiera comune di tante religioni – ma c’è anche una dimensione civile, laica, anch’essa molto forte nelle società democratiche. È più di una protesta. È un modo per dire: io ci sto, io voglio contare, io sono disposto a cambiare, io lavorerò per tessere una rete di solidarietà, di fraternità, di uguaglianza. Enrico Berlinguer scriveva nel 1979 che «la pace è il bene supremo» e ad essa va orientata la stessa battaglia per la giustizia e per un nuovo ordine economico. La pace non è assenza di conflitto. È il senso di marcia della giustizia sociale.
La guerra passa dalle religioni, dagli Stati, da odi antichi e da interessi moderni: vogliamo liberarci da questa schiavitù che umilia e uccide le persone. Per farlo c’è bisogno di politica, di ordinamenti nazionali e internazionali, di diplomazia, di giustizia. Non è vero che la pace va difesa solo dentro la fortezza dell’Occidente. Anzi, questo non è più neppure possibile. Il mondo sta cambiando gerarchie e pesi. Rapidamente e drasticamente. Il Medio Oriente non può essere lasciato tra guerre dilanianti. Perché è una polveriera. Che può far saltare il mondo. Troppi errori sono stati compiuti. Troppi sono i morti. Troppe le sofferenze, le ingiustizie, le povertà. Troppi gli odi.
Dobbiamo chiedere alla politica un cambiamento profondo. Ma dobbiamo anche essere pronti a cominciare da noi, dalle nostre responsabilità. L’indifferenza è il male del nostro tempo. Ci dà l’illusione di tenerci fuori dal pericolo, in realtà ci rende ancor più sudditi. L’egoismo individualista è l’altro male, ingigantito della globalizzazione. È arrivata l’ora di ribellarsi.
Oggi si riempirà piazza San Pietro. E tanti altri, milioni di persone, saranno vicine a chi andrà nella piazza. Sono i popoli che dicono no alla guerra. I Grandi li ascoltino. La strada della soluzione politica, anche in Siria, è possibile. Deve comprendere la sanzione per chi ha usato armi chimiche. Ma deve dare una prospettiva di convivenza a un popolo sofferente, diviso e impoverito, che rischia di disperdersi nella fuga più disperata. Sarebbe un’inversione di rotta in Medio Oriente. La regione dove nacquero le religioni monoteiste. E dove oggi la guerra e il terrorismo ve- stono panni di fanatismo religioso. Ma la pace e la convivenza sono irrinunciabili. Questo è il grido che oggi può accomunarci. Insieme alla bandiera della pace che torneremo a sventolare.
L’Unità 07.09.13