Fra i danni collaterali della tragedia siriana c’è il rischio di una precipitosa perdita di distinzioni costruite attraverso i decenni. Ian Buruma (“La moralità delle bombe” pubblicato ieri) raccoglie un argomento che sembra di buon senso a tanti nell’angustia di questi giorni: che senso ha stabilire “linee rosse” sulle armi chimiche? Forse che gli ammazzati a colpi di proiettili e bombe convenzionali sono meno morti? Dalla Convenzione di Ginevra del 1925 a quella del 1993 è cresciuto l’orrore per le armi chimiche, da Ypres 1917 alla nostra Eritrea, alla guerra Iraq-Iran, alla curda Halabja 1988 e ai sobborghi di Damasco.
Orrore per gli effetti, per i bersagli indiscriminati, e disgusto per la slealtà estrema, erede dell’avvelenamento dei pozzi. In gara con l’orrore cresceva l’avidità di potenze grosse e piccole per il possesso di armi chimiche e biologiche che ne autorizzassero la prepotenza e promettessero, se non l’espansione vittoriosa, la rappresaglia dopo la sconfitta. Gli Stati Uniti ora segnano il passo davanti alle linea rossa che hanno voluto tracciare: può darsi che Obama avesse pronunciato l’intimazione come un esorcismo, per avere un alibi all’inerzia, e contando che Assad non ardisse di oltrepassarla. Ma le armi chimiche, con l’aggravante di colpire i civili, sono per la civiltà internazionale — cioè per la riduzione della barbarie planetaria — una cosa diversa e più grave delle armi convenzionali. Fa impressione vedere come l’argomento apparentemente di buon senso, in realtà fra qualunquista e cinico, sull’indistinzione delle armi mortifere, faccia dimenticare, perfino a tanti che vi si sono impegnati, battaglie come quella per il bando alle cluster bombs, le bombe a grappolo, o le mine antiuomo cosiddette, che uccidono squartano e mutilano come un bombardamento “normale” — ma con un di più di inganno e adescamento di inermi. O per il bando all’uranio impoverito. Vogliamo passare dallo scandalo della manipolazione sull’esistenza di armi di distruzione di massa, alla dichiarazione della loro irrilevanza? Per far culminare questa liquidazione alla leggera di distinzioni sulle quali si costruisce pietra su pietra, frana dietro frana, riparazione dopo riparazione, la storia della civiltà — della riduzione della barbarie, delle unghie tagliate agli artigli — si chiamano in causa anche l’arma atomica e la nozione di genocidio. “Esiste davvero una grande distinzione morale tra uccidere circa centomila persone sganciando una bomba atomica su Hiroshima e ammazzarne un numero addirittura superiore provocando una pioggia di bombe incendiarie lanciate in una sola notte sul cielo di Tokyo?” Le vittime di Tokyo furono più numerose, certo. E i bombardamenti al napalm e ai defolianti sul Vietnam non furono meno infami, e Dresda, e… Ma a Hiroshima e Nagasaki gli umani emularono per la prima volta Dio nell’unico modo in cui potevano, mostrandosi capaci di distruggere la terra di colpo, in una creazione alla rovescia. Per la prima volta e per l’ultima, finora: l’unico caso in cui hanno rinunciato a ripetersi. Finora, insisto: perché custodiscono decine di migliaia di ordigni nucleari, e decine di paesi sono pronti a dotarsene. L’ipocrisia e l’inadeguatezza del Trattato di non proliferazione nucleare saranno una ragione per liberarcene — tanto si muore comunque ammazzati? Infine, il genocidio. “Tollerare il genocidio è intollerabile… A che punto esatto, però, occorre tracciare una linea? Quanti omicidi costituiscono un genocidio? Migliaia? Centinaia di migliaia? Milioni?”. Che sia Buruma a proporre simili interrogativi mi lascia interdetto. Riformulateli a proposito di Auschwitz. Fatto? Non occorre altro, se non ricordare che il genocidio — la parola, e poi la tormentata definizione, e la Convenzione delle Nazioni Unite, insoddisfacente quanto si voglia — venne dopo, dopo che nessuno volle tracciare quella linea rossa.
La Repubblica 04.09.13