Dall’inizio della crisi finanziaria, solo la Germania, tra le grandi economie europee, è riuscita a recuperare il ritardo accumulato nelle fasi peggiori della recessione. Per l’Italia, la variazione cumulata del Pil è particolarmente negativa (tre volte peggiore della media europea) e la ripresa che si preannuncia con il miglioramento di alcuni parametri appare troppo debole per far sperare in un recupero, in tempi brevi, dei livelli economici precedenti alla crisi. È come se la recessione avesse fatto fare al nostro Paese un salto indietro di dieci anni e servirebbe una dinamicità che, al momento, non abbiamo per tornare ai livelli pre-crisi. Nonostante il forte impatto sull’economia reale e le scarse capacità di recupero nelle fasi successive ai picchi recessivi, gli effetti dei cicli economici sui livelli occupazionali sono stati più contenuti rispetto a quanto fosse lecito attendersi, soprattutto nella prima fase della crisi. Se il ciclo dell’occupazione, infatti, avesse seguito le variazioni del PIL, tra il 2009 e il 2010 avremmo avuto uno shock negativo peggiore, con una perdita tre volte superiore a quella che in realtà c’è stata. Al contrario, abbiamo assistito a una riduzione piuttosto lenta ma costante dello stock di occupati, grazie anche all’intenso ricorso agli ammortizzatori sociali. Per quanto riguarda specificatamente le dinamiche occupazionali, l’Italia nella prima fase ha registrato un andamento più simile a quello della Germania, con cui ha condiviso la strategia basata sul potenziamento dei regimi di contrazione oraria. Nella seconda fase recessiva si è registrata, invece, un’accelerazione della crescita dei tassi di disoccupazione determinata soprattutto dal congelamento della domanda e dall’aumento di quanti hanno perso il posto di lavoro. Il persistere dell’incertezza ha frenato le assunzioni, ampliando progressivamente la platea degli outsider, costituita prevalentemente da giovani in cerca del primo impiego.
LE CONSEGUENZE L’inevitabile conseguenza è stata la crescita della disoccupazione di lungo periodo, all’interno di un mercato sempre più rigido e meno capace di riassorbire le quote di lavoro in uscita. Accentuando un problema non nuovo per l’Italia. Nel nostro Paese, infatti, le probabilità di entrare – o rientrare – nel mercato del lavoro sono storicamente più basse rispetto alle altre grandi economie europee. Nel 2008, i disoccupati di lungo periodo rappresentavano il 45,6% del totale dei disoccupati, una percentuale nettamente superiore a quella degli altri Paesi e che è cresciuta ulteriormente in questi ultimi anni per effetto della crisi. La disoccupazione di lunga durata è quella che presenta, per l’Italia, il fattore di rischio più elevato, che può compromettere gravemente i tempi di uscita dalla crisi. Una sua elevata e prolungata incidenza può far aumentare la componente strutturale, slegata cioè dalla congiuntura economica del momento, un rischio reso concreto dalla forte connotazione settoriale e territoriale della disoccupazione, particolarmente elevata nel mezzogiorno, tra i giovani e tra chi è stato espulso dal mercato del lavoro in età avanzata e con professionalità legate a settori economici in declino. Se una quota prevalente degli attuali livelli di disoccupazione diventasse strutturale e quindi non riassorbibile, si registrerebbe una contrazione considerevole del contributo del fattore lavoro alla crescita economica, contributo tra l’altro già limitato per effetto di tendenze endogene di carattere demografico, come l’invecchiamento della popolazione. Questo significa che le conseguenze della peggior crisi dal dopoguerra si potrebbero far sentire per molti anni, probabilmente decenni. La disoccupazione rappresenta, quindi, il primo dei problemi e il principale ostacolo al ritorno ai livelli pre-crisi. È impensabile recuperare il terreno perduto senza politiche volte al reinserimento nel mercato del lavoro dei disoccupati e senza l’integrazione dell’occupazione e delle politiche sociali con le strategie di politica macroeconomica. Un passaggio di questo tipo richiede, però, uno spostamento significativo verso un modello di crescita centrata sul lavoro e sull’incremento della domanda aggregata, soprattutto nella sua componente essenziale che sono i consumi. Occorre, quindi, la consapevolezza di come un’ampia gamma di strumenti politici possa favorire una crescita economica accompagnata da elementi di qualità sociale evitando che le ricette per sostenere la ripresa diventino una riformulazione post-crisi della supremazia della deregolamentazione dei mercati come strumento prioritario di politica economica. Oltretutto le politiche per l’occupazione e la protezione sociale, sostengono comunque le politiche fiscali, ampliando il bacino di finanziamento della spesa pubblica. Durante le fasi più acute di recessione sono stati proprio i sistemi di protezione sociale a rappresentare la prima linea di difesa per le famiglie e per le intere economie, dimostrando come una buona spesa pubblica tende a pagarsi da sola e a stimolare processi economici virtuosi. È questo il principale insegnamento della crisi, che segna anche il percorso per uscirne. Un percorso che deve portare a una riconsiderazione delle politiche per il lavoro e di protezione sociale, accompagnate da efficienti politiche salariali. Per quanto riguarda queste ultime, moltissimi studi hanno dimostrato che non solo servono a ridurre la povertà, ma contribuiscono alla crescita economica, trainandola dal lato della domanda interna. Politiche del lavoro, politiche sociali e politiche salariali possono dare un contributo essenziale anche nel far crescere la fiducia dei cittadini che, in un’economia matura è quasi più importante di quella dei mercati finanziari. Anche perché una ripresa talmente debole da essere percepita come un proseguimento della recessione rischia di rendere sterili i miglioramenti di alcuni parametri economici. Le politiche, quindi, non solo devono essere eque, ma devono essere comprese in maniera corretta e positiva dai cittadini, considerando che il costo della crisi finanziaria è ricaduto esclusivamente su coloro che non hanno responsabilità per le decisioni disastrose che hanno affondato l’economia reale. Ecco perché in molti sono arrabbiati e hanno ragione nel chiedere alla politica una cambio di passo e di direzione.
L’Unità 02.09.13