Le motivazioni della sentenza con la quale Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale, segnano un punto fermo nel confuso dibattito no- strano. Berlusconi è dunque colpevole per un grave reato contro la fede pubblica e l’amministrazione dello Stato: è stato l’«ideatore» di un meccanismo illecito finalizzato alla frode fiscale e questo sistema gli «ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimonia- li» su conti esteri. A differenza di quanto hanno sostenuto i suoi avvocati, non ha subito truffe da dipendenti infedeli.
La sua responsabilità è stata personale, diretta e la gestione dell’illecito si è protratta nel tempo, anche quando ha formalmente lasciato gli incarichi nella propria azienda per guidare il governo nazionale. In uno Stato di diritto queste parole sono macigni. Ovviamente un condannato resta sempre libero di criticare, o di non condividere. Ma le sentenze si rispettano. E si rispettano la dignità, l’autonomia e la separazione dei poteri. Berlusconi non è stato condannato per reati politici: chi lo sostiene, o comunque lascia intendere che c’è una ragione politica dietro la sentenza, mette in discussione uno dei capisaldi su cui poggia l’ordinamento costituzionale. È inaccettabile che questa tesi sia sostenuta da un capo politico, ancor più lo è se viene fatta propria dal suo partito. Berlusconi è stato condannato per un reato comune. Un reato molto grave, che lo rende incompatibile con incarichi pubblici. Nessun Paese democratico accetterebbe deroghe su questo principio, con o senza legge Severino. Farebbero bene lui e il suo partito a prendere atto della realtà, anziché avanzare pretese goffe, richieste di rinvio, ipotesi ricattatorie che possono sì produrre paralisi di sistema, ma non certo salvacondotti per sottrarre un singolo alla potestà del diritto.
Le manette non sono mai state la nostra bandiera. Consideriamo ancora oggi quel cappio agitato vent’anni fa in Parlamento come una delle pagine più vergognose della nostra democrazia. E in ogni caso non è la via giudiziaria quella che può condurre alla sconfitta politica della destra: al contrario, liberarsi dal berlusconismo vuol dire esattamente ristabilire i confini tra i poteri dello Stato, ridurre i conflitti istituzionali, rispettare l’autonomia dei poteri neutri e comporre la loro attuale maggiore forza in un equilibrio di garanzie. Ora comunque siamo davanti a una sentenza definitiva. E la politica, lo Stato non possono far finta che non sia così. È una questione morale, ma soprattutto una questione istituzionale, democratica.
Il problema non è se il Senato debba votare la decadenza a settembre o a ottobre, il problema non è il potere del Parlamento di adire alla Corte costituzionale per un giudizio sulla «retroattività» della legge Severino, il problema non è quando scatterà l’interdizione dai pubblici uffici. Sia chiaro, sono tutte questioni importanti: e abbiamo detto fin qui che il diritto va rispettato e non strumentalizzato. Ma adesso il problema è un altro: la condanna di Berlusconi pone lui stesso e il Pdl di fronte a una incompatibilità istituzionale. Non può continuare a svolgere un ruolo pubblico chi si è macchiato di un reato comune così grave a danno dell’intera comunità.
La questione dell’«agibilità politica» posta dal Pdl – rievocando, non a caso, il gergo dei più facinorosi negli anni 70 – è ancor più ridicola di fronte alla lettura delle motivazioni della Cassazione, che restano un atto definitivo nel nostro ordinamento. Gli spazi di Berlusconi siano decisi dal giudice di sorveglianza dopo la nuova sentenza della Corte d’appello, il Senato scelga i tempi giusti (senza sconti e senza forzature) per la decisione di sua competenza, gli altri processi a carico del Cavaliere proseguano con spirito di imparzialità: a prescindere da tutto questo, il passo indietro di Berlusconi è a questo punto inevitabile e da oggi è condizione della stessa «agibilità» della destra italiana.
Il compromesso raggiunto ieri su Imu, Service tax, Cassa in deroga ed esodati è stata un’ulteriore prova della difficoltà di questo governo «senza intese». La soluzione adottata contiene un deficit di equità, che speriamo venga colmato nella legge di Stabilità (sarebbe gravissimo se, per esentare i proprietari più ricchi dall’Imu sulla prima casa, il governo fosse costretto ad aumentare l’Iva). Tuttavia, restano le ragioni di un governo di «necessità» fino alla fine del 2014 per mettere l’Italia in sicurezza, per agganciare la ripresa e per evitare un’altra elezione nulla (causa Porcellum e bicameralismo paritario). Berlusconi e il Pdl devono però sapere che arrivare a fine 2014 vuol dire approdare anche a un nuovo centrodestra. Vuol dire che Berlusconi dovrà cedere il testimone e far girare la ruota anche nel suo schieramento. Il governo Letta potrà arrivare alla fine del semestre italiano di presidenza Ue se l’Italia approderà al cambiamento. Non solo il congresso del Pd, ma un nuovo centrodestra con una nuova leadership. Non sarà il voto sulla decadenza di Berlusconi – che pare inevitabile, anzi doveroso, anche ad ascoltare i costituzionalisti sul merito della legge Severino – a far cadere Letta. Il governo cadrà se Berlusconi pretenderà di svolgere ancora un ruolo pubblico e rifiuterà di compiere quel gesto, che in ogni altro Paese occidentale sarebbe oggi scontato. E che ogni altro partito occidentale pretenderebbe dal proprio leader pro-tempore, chiunque esso sia.
L’Unità 30.08.13