Su questioni come la violenza contro le donne e i femminicidi, i toni netti e trancianti non sono certo i più adeguati. E questo vale anche per il giudizio sull’attuale decreto governativo all’esame del Parlamento. Il movimento Snoq, molto responsabilmente, non lo ha osannato alla sua uscita e non lo rigetta ora che inizia il suo iter parlamentare. È in corso al suo interno, come racconta l’Unità del 26 agosto, una discussione vivace e non potrebbe essere diversamente, trattandosi di un movimento articolato, composito, plurale. Ma alcuni punti fermi mi pare utile richiamarli. La lotta alla violenza è sempre stata una priorità nell’azione di Snoq, un’azione che mira a modificare la cultura e le modalità con le quali combatterla.
Quando, in un clima di rassegnazione dell’opinione pubblica, lanciammo l’appello Mai più complici nel maggio 2012, (contribuendo a diffondere la parola femminicidio nel linguaggio dei media e ottenendo un larghissimo sostegno di donne e uomini) volevamo che tutti comprendessero che i femminicidi e la diffusa violenza contro le donne non erano frutto di una loro antica e permanente debolezza ma il segno della crisi dell’ordine patriarcale e della difficoltà di tanti, troppi uomini a riconoscere ed accettare la libertà femminile, nel privato come nel pubblico. Snoq ha detto perciò, da subito, che la violenza contro le donne è un problema degli uomini ed un problema politico di prima grandezza. Non si tratta di una questione sociale, culturale o educativa ma politica perché tocca i rapporti tra donne e uomini e come tale va affrontata, investendo politicamente tutti gli ambiti in cui si manifesta e chiamando gli uomini, nel privato come nel pubblico, a risponderne.
Per cambiare le mentalità occorre dunque tenere strettamente connessi cultura, diritto, leggi, perché le norme sono anch’esse cultura e perché gli interventi istituzionali segnalano che la violenza contro le donne diventa un problema dello Stato, ovvero un problema politico generale.
La campagna di Snoq, insieme a quelle di gruppi e associazioni,di singole ha avuto effetti diffusi in tutti i campi, dai media al Parlamento, dal teatro alle scuole. Fino al decreto legge del governo, oggetto in questi giorni di pubblico dibattito. Si dice da più parti che il decreto in sé non va bene, tradisce una logica emergenziale mentre gli interventi contro la violenza devono essere «strutturali». Un governo, come è noto, se vuole intervenire, ha a disposizione solo i decreti-leggi che devono poi passare al vaglio dei due rami del Parlamento (a meno che non ponga la fiducia). Dunque questo governo se voleva mostrare la sua attenzione e disponibilità a fare la sua parte in questo campo non aveva altro mezzo che un decreto. Quindi si tratta di valutarne il merito, fermo restando che il Parlamento avrà tutte le risorse per modificarlo e migliorarlo, anche con il supporto di un largo movimento di opinione, come si sta profilando con le audizioni già previste.
Venendo al merito, il decreto presenta alcune novità, a mio avviso, positive, mentre ci sono mancanze che allarmano. Innanzitutto esso non solo costituisce un primo serio riconoscimento istituzionale della gravità degli atti di violenza compiuti contro le donne, ma ne specifica la natura domestica. Se ricordiamo quanta resistenza è stata opposta nella scorsa legislatura alla ratifica della Convenzione di Istanbul proprio in ragione della presenza del reato di violenza domestica, si comprende il salto di qualità politico compiuto. Per non dire delle misure che prevedono l’allontanamento dell’autore della violenza, insomma uscirebbe di casa lui mentre ora è costretta lei a cercare rifugio fuori di casa. I centri antiviolenza vanno sostenuti ed adeguatamente finanziati, ma dobbiamo sapere che non sono presenti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, e se non interviene un impegno del pubblico non pare possibile assicurare alle donne, a tutte le donne che ne hanno bisogno, assistenza e protezione. Dubbi sono stati avanzati circa gli inasprimenti delle pene connessi alle nuove misure.
Il punto è che servono ancora norme per dire che una donna non può morire presa a calci in un tinello e riconoscerlo può essere molto doloroso per tutte, ma è necessario chiamare in causa anche il codice penale se vogliamo affermare che quella donna è una persona e che polizia e magistratura devono adeguare le loro azioni e i loro giudizi.
Altri punti significativi come la testimonianza in modalità protetta; assistenza legale gratuita per la donna offesa; la formazione degli operatori o il sostegno alle immigrate vittime di violenza mi fanno ritenere che ci sia bisogno intorno a questo dl di una discussione, nel Parlamento e tra una vasta opinione pubblica, priva di pregiudizi intorno alle questioni controverse, come la querela non ritrattabile, e capace di affrontare i nodi lasciati insoluti. Come tutto il capitolo della prevenzione del tutto assente. Infatti essa deve riguardare l’indispensabile protezione delle vittime ma deve farsi carico anche degli uomini violenti sul piano della prevenzione, rieducazione e repressione altrimenti cambierà molto poco nelle nostre vite. Inoltre va assolutamente diradata la nebulosità in cui è lasciata la copertura finanziaria necessaria a far fronte non solo alle innovazioni previste, ma anche a quelle che bisogna introdurre.
L’Unità 28.08.13