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“La funzione educativa dimenticata”, di Alessandro D’Avenia

Per fare una splendida lezione scolastica non serve avere una vita morale altrettanto splendida. Ma se si scopre un professore ad approfittare del suo fascino per mescolarsi a studentesse minorenni c’è materia a sufficienza per riempire le nostre orecchie assetate di scandali e i nostri cuori affamati di capri espiatori.
La notizia fa ancora più notizia proprio perché si tratta di un professore e la sua professione è di quelle in cui pubblico e privato tendono a coincidere, come tutte le professioni grazie alle quali delle vite «in formazione» sono affidate ad altri. Vale tanto per il politico a cui ne sono affidate migliaia quanto per l’insegnante a cui ne sono affidate alcune decine. Ma non per questo vale la pena parlarne, niente di nuovo sotto il sole.

Colpevole o no dei fatti di cui è incriminato (e non voglio entrare nel merito perché non sta a me giudicare) la credibilità professionale del docente è finita. Perché?

Perché per essere un bravo docente non basta saper spiegare Dante e Manzoni magnificamente tanto da non farli odiare. Capisco la bellissima lettera dei professori che difendono il loro collega, perché ogni insegnante sa quanto a scuola si muoia di solitudine, di invidie, di dicerie. Ma il piano emotivo deve lasciare lo spazio ad un ragionamento più ampio e stingente allo stesso tempo.

La professione del docente è una professione che ha il suo centro nella relazione educativa: che senso ha stare nella stessa aula a imparare insieme qualcosa? Potremmo caricare le lezioni su youtube e fruirne quando pare e piace, risparmiandoci alunni annoiati o riottosi e burn-out. Basterà poi stilare un calendario di compiti in classe e interrogazioni. Ma sarebbe ancora scuola?

No. Nell’era del virtuale la scuola rimane reale, perché la relazione educativa ha bisogno di presenza, scambio reciproco (non univoco), carne (non carnalità). Benché la relazione sia impalpabile come l’aria, essa è ciò in cui a scuola si è immersi e di cui si respira. Ce ne si accorge solo quando l’aria è inquinata, come in questo caso. Dalla qualità della relazione dipende la crescita degli alunni, non dalla mera bravura e passione del docente nello spiegare.

Ogni relazione è qualcosa che trascende gli attori della relazione, è fatta sì dalle persone ma dà alle persone che ne sono i poli qualcosa che supera entrambi.

Nella relazione educativa il bene relazionale in gioco è la crescita dello studente in autonomia e spirito critico e la crescita del docente in capacità di ascolto e adattamento. Se invece la relazione diventa di controllo, fosse anche per il fascino esercitato dal carisma, quella relazione non è una buona relazione, perché non dà spazio all’allievo per crescere, ma lo rende dipendente, ipnotizzato, emotivo. E rende il docente narciso, controllore, fino ad abusare (anche fisicamente) del suo ruolo.

Le relazioni sono tali perché superano gli individui. Non basta essere buoni individui per avere una socialità e una società buona. I figli non sono a immagine dei genitori presi singolarmente (solo fisicamente), ma sono a immagine della qualità della relazione che esiste fra i genitori. E anni di insegnamento mi offrono tanti esempi quanti alunni ho avuto.

Il docente in questione sarà pure un ottimo conferenziere, ma è un pessimo professore. Affascinante, appassionato, capace di afferrare il cuore e la mente dei suoi studenti, ma incapace di stabilire una relazione educativa equilibrata ed asimmetrica. Non basta riempire di belle cose una testa per essere bravi insegnanti, lo si è se si instaura una relazione che fa crescere e rende autonomi. È un pessimo professore, non semplicemente per etica professionale e età delle alunne che magari se ne sono anche innamorate, ma perché la relazione educativa non crea un bene né per lui né per l’alunna (anche se il loro sentimento fosse sincero).

Dopo anni di insegnamento mi sono reso conto di quanto sia bello acquisire un ruolo di vera paternità nei confronti dei propri allievi: vederli crescere liberi e non soggiogati, capaci di criticarti e di pensare autonomamente, poter parlare con loro a tu per tu, ma sempre sotto gli occhi di altri, per non abusare mai di quell’inevitabile vicinanza che la relazione educativa crea con i suoi momenti di sfogo, di debolezza, di bisogno di aiuto. Che triste beffa invece vederli al guinzaglio del proprio fascino, marionette del proprio narcisismo, incapaci di muovere un passo da soli.

Un ottimo professionista non è detto che sia un buon marito, un buon padre, un buon amico, un buon collega. In una cultura individualista innalziamo le qualità del singolo, dimenticando la specificità delle relazioni e la loro centralità in contesti che ne sono intessuti.

Ridare peso alle relazioni e a ciò che esse significano è l’unico modo di riscoprire il fondamento della vera socialità e società: famiglia e scuola ne sono i nuclei originari. Se non fosse così non avremmo nulla da incolpare ad un docente carismatico che finisce a letto con le alunne.

La Stampa 27.08.13