L’uso astuto e disonesto della lingua è il primo atto di ogni guerra. Dunque Berlusconi, che ha commesso il delitto, chiama «pacificazione » l’abolizione del castigo che è la guerra del delitto al diritto, l’esatto contrario della pace. E il voto del Parlamento, che è la massima espressione civile della democrazia, per Cicchitto è un «tribunale speciale» che, secondo Quagliarello, si trasforma esso stesso in «plotone di esecuzione». Attenzione, però, questa non è una guerra di parole ma sono parole di guerra. NON è la dialettica dei retori, non è l’eloquenza della difesa di Coppi contro i rigori dell’accusa del sostituto procuratore generale Antonio Mura, non sono le parole di Ghedini contro le parole della Boccassini, non è nemmeno la sapienza linguistica degli esperti in cavilli e in sfumature, ma è un’apertura di ostilità che fa saltare l’intero codice, è quel-l’offesa allo Stato che, lanciata da un ex premier, in altri tempi si sarebbe chiamata alto tradimento.
E lo si capisce benissimo ricordando che «la soluzione politica» proprio ieri richiesta da Angelino Alfano a Enrico Letta, è la stessa pretesa dei terroristi condannati, da Senzani a Cesare Battisti, a tutti i brigatisti antistato che appunto non riconoscevano né il parlamento né i tribunali, e neppure il singolo carabiniere.
Quelli raccontavano come epica guerra civile la loro macelleria e i loro agguati e Berlusconi mistifica la sentenza che lo inchioda alla frode fiscale come se fosse la nobile sconfitta di mezza Italia. «La pacificazione » per lui è trascinare nel suo singolare, individuale destino di frodatore quella parte d’Italia che, per legittimi motivi, non è di centrosinistra: tutti dentro il suo carniere di bracconiere.
«Siamo tutti colpevoli, siamo tutti evasori » ha sostenuto infatti la Santanché con un altra raffica di senso comune capovolto. La formula della Santanché parodizza la solidarietà, rovescia quella locuzione retorica che tutti usiamo quando vogliamo identificarci con le vittime della barbarie e delle violenze, anche naturali: «Siamo tutti americani» dopo l’11settembre, «siamo tutti berlinesi» davanti al muro del comunismo, «siamo tutti aquilani
» dopo il terremoto, «siamo tutti clandestini » davanti alla legge razzista che ci fa vergognare di essere italiani.
Ebbene, ora l’imbonitore si è appropriato dello strumento toccante della fratellanza ed ecco che «siamo tutti ladri», «siamo tutti Berlusconi».
E il meccanismo è così ramificato ed efficace che i quotidiani della casa sempre più spesso pubblicano sfoghi di lettori che raccontano di essere stati aggrediti e insultati come «ladri» perché leggono appunto Libero e il
Giornale.
Trionfa così l’impostura. È la prova che la menzogna sta prendendo piede, e non solo provoca ma confonde e disinforma.
Il ladro è Berlusconi e non chi lo ha votato. È stato condannato lui e non gli elettori di centrodestra. L’imbonitore lavora per trasformare in delinquenti anche i suoi sostenitori, è come lo spacciatore che vuole la solidarietà delle sue vittime,
come il bracconiere che si appella alla complicità della selvaggina che impallina, come il mafioso che dice di essere Enzo Tortora. Quella di Berlusconi è la sindrome di Sansone: muore sì, ma con tutti gli italiani.
Attenti dunque alle nuove parole dell’eversione che una volta era verbosa, fatta di fumosissimi comunicati illeggibili e di risoluzioni declamatorie. Oggi l’eversione è l’evasione fiscale e l’inversione dei significati più semplici.
E nel gergo del truffatore pop il massimo della complessità consentita è «il problema di sistema» di Quagliariello oppure la «la questione di democrazia» di Brunetta. Non trucchi linguistici ma slogan di quella «guerra civile» annunziata da Bondi.
«L’agibilità», «le più mature determinazioni », «l’omicidio politico», il dramma della democrazia», «l’atteggiamento pregiudiziale »: sono tutti allarmi, avvisi, dettati, ricatti all’Italia che deve piegarsi alla «anomalia Berlusconi» (scrive il Foglio) che una volta era la vittoria dell’outsider e ora è l’impunità del reo.
Non parole, ma parole d’ordine dunque, truffe di significato come l’appello della Gelmini per «un approfondimento della legge Severino» che in questo neoitaliano eversivo è l’appello a disattendere una legge, l’appello a mettersi fuori legge.
Certo, si può anche ridere delle frode linguistica e dell’abuso di analogie storiche. Al profondo Capezzone si potrebbe dire per esempio che se davvero volesse andare sino in fondo nel (bislacco) richiamo all’amnistia che fu accordata ai fascisti dovrebbe ricordare che il fascismo fu messo fuori legge e che Mussolini fu giustiziato. Il più imbarazzante è stato Luigi Amicone che ieri sera durante la trasmissione di Luca Telese su La7 ha paragonato Berlusconi a Che Guevara, e la magistratura e il governo Letta al governo militare boliviano che lo volle morto. Se continua così tra poco diranno che, durante il processo, a Berlusconi hanno rubato il portafoglio che è, per volontà popolare, il portafoglio d’Italia. E che sono stati i giudici, ladri ovviamente di democrazia.
La Repubblica 22.08.13