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“Salvare il territorio è l’opera più urgente”, di Salvatore Settis

Mentre lo spread cala, la crisi avanza, crescono disoccupazione e allarme sociale, ma a certe cose non si rinuncia: tatuaggi, cibi esotici, yacht, porti turistici e altri generi di prima necessità. E se qualcosa non funziona nel Bel Paese, non può che essere una fatalità. Che cosa di più “fatale” dell’erosione delle coste? E che colpa ne abbiamo, noi? Nel settembre 2012, dopo il rovinoso crollo di una delle più famose passeggiate d’Italia, la “via dell’amore” alle Cinque Terre, l’allora ministro dell’Ambiente Clini dichiarò senza batter ciglio: «Servirebbe un piano contro il dissesto idrogeologico». Dissesto che per pura fatalità stava avvenendo a sua insaputa, anche nei dieci anni precedenti in cui era direttore generale dello stesso ministero. Fatalità, sfortuna, divinità avverse: sarà colpa loro se, davanti a un territorio allo sfascio dal Cervino a Pantelleria, non sappiamo analizzarne le fragilità strutturali come un insieme, e ci industriamo invece a segmentare territori e problemi intervenendo in modo parziale, desultorio, settoriale, qualche volta con rimedi peggiori del male.
Guardiamo le coste, distogliamo lo sguardo dal retroterra il cui degrado è concausa dei loro problemi. Già nel 2009 allarmanti dati Ispra hanno evidenziato che «in Italia due terzi (oltre il 65%) del territorio compreso nella fascia di 10 Km dal mare (…) è modellato con interventi sull’ambiente invasivi e irreversibili ». Questo «uso del territorio non rispettoso delle sue vocazioni naturali» ha provocato il collasso delle difese contro l’azione del mare, accelerato l’estinzione delle specie marine acclimatate, distrutto dune e pinete costiere, scacciato gli aironi dalle foci dei fiumi, provocato danni per almeno cinque miliardi. Erosione e rischio allagamento sono la norma in tutta la Penisola, e il moltiplicarsi dei porti turistici, spacciato per agente del benessere, non fa che aggravare il problema, con la concomitante invasione di cemento che non è solo quello dei moli, ma delle infrastrutture, strade, parcheggi, centri commerciali, alberghi, zone residenziali. Nella sola Liguria, 50 porti turistici con oltre 20.000 posti barca (ma è previsto un incremento del 50%). In Calabria, secondo uno studio della Regione, 5.210 abusi edilizi in 700 chilometri di costa, mediamente uno ogni 135 metri, di cui «54 all’interno di Aree Marine Protette, 421 in Siti d’interesse comunitario e 130 nelle Zone a protezione speciale», incluse le aree archeologiche.
Ma la vulnerabilità delle coste non può esser isolata dalle altre fragilità del nostro territorio. Mezzo milione le frane censite, che interessano il 10 % del Paese (anche in prossimità delle coste): un degrado velocizzato dall’abbandono degli spazi rurali, da incendi boschivi spesso dolosi, dalla cementificazione che sigillando i suoli accresce la probabilità di alluvioni e ne rende più gravi gli effetti, dall’incuria per il regime delle acque, che riduce le risorse idriche e contribuisce a generare esondazioni. Alla cementificazione delle coste corrisponde la desertificazione di colline e montagne, l’abbandono di suolo agricolo e di risorse idriche, l’abbattimento di boschi e pinete che fragilizza il territorio alterando gli equilibri tettonici. La famosa definizione della Calabria come «uno sfasciume pendulo sul mare» (Giustino Fortunato, 1904) non solo è ancora attuale, ma a ogni anno che passa si applica a porzioni crescenti dei nostri litorali: e questo in un territorio come quello italiano, esposto per morfologia anche ad altre calamità, come i terremoti e le eruzioni vulcaniche. Eppure chi ci governa si acceca per non vedere. Massimo esempio, Giampilieri presso Messina: dopo un’alluvione con 38 morti, Bertolaso (sottosegretario con Berlusconi) dichiarò prontamente che era impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti); due giorni dopo il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo dichiarò che il Ponte sullo Stretto andava fatto ad ogni costo. In nome dello “sviluppo”, inteso come cementificazione a oltranza, la cura del territorio viene archiviata come un optional di lusso.
Un caso recente può simboleggiare quanto sta accadendo, e stavolta in una regione che passa per essere (e forse è) la più “virtuosa”, la Toscana: il fiume Cecina, la sua valle (che è, o era, fra le più belle d’Italia) e la sua foce. Il 4 luglio la Procura di Livorno ha riconosciuto che almeno fino al 2011 la Solvay (che usa a scopi industriali quasi il 50% dell’acqua del Cecina) ha riversato in mare fanghi tossici in misura doppia a quanto consentito: le cosiddette “spiagge bianche” devono il loro colore, a quanto pare, a componenti chimiche dannose. Intanto la foce del fiume viene spostata, annientando spiagge e pinete per costruire l’invaso di un ennesimo porto turistico con 800 posti barca, 2000 posti auto, un eliporto, alberghi, appartamenti, centri commerciali, ristoranti, mercati («Arriva il porto e sparisce mezza spiaggia» titolava il Tirreno l’11 agosto). Secondo uno studio di Italia Nostra, questa violenta trasformazione dell’area «favorità il deposito di detriti, l’insabbiamento della foce, l’alluvionamento degli abitati di Marina di Cecina in occasione delle piene ordinarie, l’impedimento del deflusso a mare delle acque superficiali e sotterranee, il rigurgito delle acque e l’impaludamento delle zone interne, la totale alterazione dell’ecosistema di foce». Davanti a questi ed altri delitti, si sveglierà il governo Letta? O dovremo continuare a subire, come nella successione indolore da Clini-direttore generale a Clini-ministro, la retorica provinciale che ribattezza il litorale con l’etichetta di waterfront per potervi meglio infierire al riparo di una parola d’accatto? Quando capiremo che il principale nemico della sicurezza del nostro territorio è il cemento che giorno e notte (feste incluse) divora 8 metri quadrati di suolo al secondo? Quando verrà in mente a chi ci governa che è urgentissimo un piano nazionale di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio? Che questa, e non i porti turistici né il Tav, è l’unica, la vera “grande opera” di cui l’Italia ha bisogno? Con le parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, «ci vorrebbe assai poco, una volta saputo che metà della nazione è esposta a gravi rischi, per proiettare su questa scala le perdite subite a ogni evento, e calcolare il corrispettivo danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica».

La Repubblica 20.08.13