C’era una volta il lavoro, paradigma di una società che faceva perno in- torno alla fabbrica e all’ufficio. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria, ma anche l’educazione dei giovani, la sfera personale, il tempo libero, le relazioni sociali, lo spazio dedicato alla famiglia. La scuola accompagnava il giova- ne all’età lavorativa, la sanità pubblica si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti dalle malattie, le pensioni di anzianità garantivano la sicurezza economica all’uscita dal mondo del lavoro. Un modello di organizzazione sociale riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita, il cui tracciato essenziale era stato incastonato nel primo articolo della Costituzione: una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Nell’epoca del lavoro multiforme, instabile, discontinuo, la politica ha perso gran parte dei rispecchiamenti che avevano origine da quell’organizzazione sociale. Il lavoro non è più il «pentagramma» della politica su cui erano scritti i «fini generali», i partiti non affondano più le radici nelle fabbriche, i discorsi pubblici dei leader non ambiscono più a scandire il ritmo dei processi di produzione, non tentano più di coniugare il rapporto fra capitale e lavoro. Oggi, se dovessimo interrogarci sulle possibilità che nasca (o rinasca?) un «partito del lavoro», una forza politica, cioè, che attraverso il lavoro si ponga l’obiettivo di governare la società nel suo complesso, non potremmo che darci una risposta negativa, perché il lavoro non è più il «centro» della politica. E all’orizzonte non si annuncia- no soggetti pronti a raccogliere l’eredità di quelle forze politiche che, pur da sponde lontane, per cinquant’anni, hanno avuto nel lavoro il loro denominatore comune. La perdita della centralità del lavoro ha reso meno rappresentativi i partiti, più fragili le istituzioni, più soli i lavoratori e persino più deboli le imprese. Non è un caso che da vent’anni, nel nostro Paese, manchi una vera politica industriale.
Il lavoro non è più l’unità di misura dell’interpretazione sociale ed economica che orientava le scelte delle grandi famiglie politiche del Novecento: ne hanno preso il posto le mutevoli leggi della finanza e politiche asincrone che hanno necessità di contabilizzare il consenso in tempi brevissimi. I partiti del novecento potevano permettersi orizzonti e visioni di campo lungo, che avevano corrispondenza nei cicli di vita economici, mentre le insicure leadership del post-Novecento hanno bisogno di un consenso che deve essere rendicontato in fretta. In settimane, se non in giorni. Le organizzazioni politiche «impersonali» potevano mettere in campo scelte anche impopolari, mentre le leadership individuali e solitarie di oggi hanno bisogno costantemente di interpretare l’onda emotiva, assecondandola e alimentandone le pulsioni, anche quelle più retrive. Senza che si abbia la forza e il coraggio di dire qualcosa di diverso, o qualcosa che abbia una declinazione di respiro più ampio di un incombente presente.
La fine della centralità del lavoro ha portato a non far più coincidere i cicli di vita economici e quelli politici. Col risultato che gli uni non dipendo- no più dagli altri e sono cresciuti gli spazi di rarefazione politica e d’ingovernabilità della società.
Parlare di «disoccupazione» non è la stessa cosa che parlare di «lavoro», perché mentre il primo è un indicatore economico, il secondo definisce un ambito e un’essenza che già Freud definiva fonda- mentale nella costruzione dell’identità dell’individuo. E, conseguentemente del palinsesto sociale. Infatti, piaccia o no, il conflitto
di classe, anche se diverso rispetto al passato, non è scomparso e nemmeno attenuato. Né la sua corrispondenza politica. Al contrario, po ne nuove sfide di fronte all’incalzare della crisi. Non possono sfuggire le conseguenze delle nuove asimmetrie dei rapporti di potere tra finanza, produzione e lavoro. Ciò che tuttavia sembra essere mutato profondamente è il loro primato relativo, la loro perdita di centralità politica rispetto all’insieme di conflittualità che attraversano la società contemporanea.
Non sono le «classi» a essere superate – benché siano cambiate in termini di composizione, caratteristiche e bisogni – ma appare inadeguata la capacità di interpretarne e rappresentarne il connotato politico che per anni ha avuto il suo focus nel lavoro.
I cambiamenti, semmai, sono stati nella composizione delle classi stesse. Vent’anni di globalizzazione, infatti, hanno modificato questo agglomerato inizialmente composto prevalentemente da operai, a cui si sono aggiunti progressivamente gli impiegati e i lavoratori del settore terziario. Gruppi accomunati da bassi salari e da una crescente precarietà, che vivono ai margini delle zone dove si produce ricchezza, in una no man’s land culturale. E non è un caso se, proprio in questi paesaggi sociali degradati, tendono ad affermarsi i partiti populisti. Cambiamenti di questo tipo si sono visti negli ultimi anni anche in altri Paesi, come gli Stati Uniti o la Francia, dove il rapporto con la nuova middle class proletarizzata è stato determinante nel successo all’appuntamento elettorale. Spesso dimenticata, talvolta data per estinta, la classe operaia si è riaffacciata quindi anche sulla scena politica americana. Il voto dei «colletti blu» è stato determinante per Obama, soprattutto in alcuni Stati chiave. Come in Ohio, simbolo della sua elezione, dove hanno sede stabilimenti Chrysler e molte aziende dell’indotto del settore automobilistico. Anche in Francia il voto dei lavoratori è stato determinante.
François Hollande e Nicolas Sarkozy aprirono il duello delle presidenziali con un inedito confronto proprio sulle classi medie e popolari, accusandosi a vicenda di non volerle tutela- re. Ed è stato proprio il divorzio da quelle fasce di popolazione dell’ex presidente francese a favorire il successo di Hollande e ad aprire al candidato socialista le porte dell’Eliseo. In Italia, la fine della centralità del lavoro, si riflette nel tessuto multiforme di una conflittualità costante ma quasi latente, ad alta frequenza e bassa intensità, che non si accompagna ad alcun vettore di trasformazione che non sia frutto di una risultante provvisoria, riflettendosi in un deficit di rappresentanza e non di domanda politi- ca. Un deficit cui i partiti rispondono con la continua ricerca di un «uomo forte», che sappia farsi interprete di una «politica forte», ma che è soltanto la risposta incompleta di un sistema inaridito e rarefatto, lontano dalla società e che vive, mai come oggi, gli affanni dell’inadeguatezza.
L’Unità 19.08.13