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“Cie hanno già fallito: chiuso anche quello di Modena”, di Andrea Bonzi

La Bossi-Fini perde i pezzi. L’insofferenza delle associazioni, sindacati – Cgil in testa – e degli enti locali contro i Centri di identificazione ed espulsione (Cie, gli ex Cpt istituiti dalla Turco-Napolitano) ha raggiunto il culmine in queste settimane. Le strutture – oggi complessivamente 13, per un totale di 1.900 posti disponibili – sono sempre più spesso nell’occhio del ciclone, sia per le pessime condizioni di vita degli ospiti, sia per una gestione al ribasso che ha lasciato per mesi gli operatori senza stipendio. Un fallimento certificato dalle chiusure di Bologna (avvenuta a marzo per lavori, e poi confermata a giugno) e Modena, che è stato svuotato mercoledì scorso, nonché dalle polemiche che stanno investendo il centro di Gradisca d’Isonzo, vicino a Gorizia, dopo che un immigrato, cercando di fuggire, è caduto dal tetto e versa ora in gravissime condizioni. Per questo dunque, anche la politica sta cercando di portare a casa la definitiva cancellazione di queste vere e proprie prigioni mascherate. Il Pd, a fine luglio, ha presentato alle Camere una mozione a firma Ghedini-Zampa per abolire tutti i Centri.

IL CASO DI BOLOGNA

In Emilia, al momento, nessuno dei due Cie presenti sul territorio è aperto. A Modena, mercoledì è stato dato il via ai lavori di ristrutturazione: gli “ospiti”, 6 quelli rimasti, sono stati trasferiti altrove e i 30 addetti della consorzio Oasi che gestiva la struttura sono stati messi in cassa integrazione. Il tutto, previo accordo tra il prefetto Mi- chele Di Bari e il vicepremier Angelino Alfano. «Se non si è più in grado di garantire condizioni di vivibilità dignitose all’interno del Cie, allora bisogna intervenire», ha sentenziato Di Bari annunciando i lavori, ben accolti anche dal sindaco modenese Giorgio Pighi. Difficile dire quando riaprirà, e non è escluso che il Centro resti inattivo. Tanto che i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi e Stefano Vaccari ammoniscono: «Non si deve arrivare alla riapertura del Cie senza averne rivisto prima, a livello nazionale, funzioni e obiettivi, nel quadro più generale di una seria e rinnovata politica sull’immigrazione». A Bologna, del resto, è andata proprio così: lo stop a marzo per lavori analoghi è stato reso definitivo a giugno.

LE RAGIONI DI UNA DÈBACLE

Le ragioni della dèbacle vanno ricercate nel “manico”: l’ultimo capitolato d’appalto al ribasso prevedeva costi di gestione insostenibili: con circa 29 euro al giorno a migrante (il 40% di quanto offerto da una società concorrente) il consorzio siciliano Oasi si è aggiudicata entrambe le strutture. Però poi le condizioni di vita degli ospiti peggioravano e i lavoratori lamentavano stipendi in ritardo o non pagati, che alla fine sono stati saldati dalle Prefetture. Polemiche finite sui giornali, tanto che a Milano il Prefetto ha stoppato l’affidamento all’Oasi, giudicando incongrua l’offerta presentata. Insomma, nessuno – a parte forse qualche esponente della Lega Nord – sembra ne sentirà la mancanza. E non è una questione solo emiliana. L’ultima rivolta è avvenuta al Cie di Gradisca d’Isonzo, in Friuli. Un gruppo di clandestini è salito sui tetti della struttura, protestando per le condizioni della detenzione. Durante un tentativo di fuga, un marocchino 35enne è caduto e versa ora in condizioni gravissime. Una tragedia che ha fatto alzare la voce alla governatrice della Regione, Debora Serracchiani, creando anche un inedito asse M5S-Pd per chiederne la definitiva chiusura.

L’Unità 19.08.13