Non vi è dubbio che questo non sia il governo auspicato da chi ha votato Pd alle ultime elezioni; e che non possa essere vissuto con entusiasmo da nessun democratico. Il conflitto, non la rissa ma la divergenza, la contrapposizione è il sale della democrazia; e questo governo deve necessariamente neutralizzarla, temporaneamente. Resta drammaticamente vero che questo è un governo d’emergenza, di necessità, e quindi di servizio e di scopo.
Si legittima per quello che fa, ovvero per quello che deve fare: e la prima cosa è mettere in sicurezza i conti pubblici, e invertire il trend economico e occupazionale. Obiettivi centrati, finora, solo parzialmente; che richiedono, piaccia o no, continuità d’azione e ininterrotta legittimazione sulla scena internazionale, soprattutto europea. Ora, le sorti del governo sono in forse per le vicende giudiziarie di Berlusconi, personali come tutte le vicende giudiziarie, ma dagli evidenti possibili risvolti politici. E che, davanti al non possumus nec debemus di Napolitano (per quanto riguarda provvedimenti straordinari o trattamenti di favore), a fasi alterne si agitano nella mente del Cavaliere fantasmi di persecuzione e di rottura, insieme a più miti e costruttivi consigli. Non si sa ancora quale umore prevarrà; certo, chi andrà alla rottura dovrà spiegare al Paese perché mette a repentaglio i sacrifici fin qui sopportati con un atto inconsulto di rara gravità, di straordinario egoismo e di immane cecità.
Nell’attesa di un chiarimento, che può avvenire subito alla ripresa dell’attività politica ma potrebbe anche avere bisogno di un paio di mesi per maturare, alcune osservazioni.
La prima: questo governo è una coabitazione coatta (non una pacificazione né una storia d’amore, quindi), che in quanto tale può essere gestita con assoluta freddezza (si sta insieme per dividere i costi delle bollette), con rissosità quotidiana fatta di mille dispetti e vessazioni per far saltare i nervi dell’altro (per potersi dare la colpa della separazione, e tanto peggio per la neutralizzazione dei conflitti), o infine con quel minimo di buon senso e di collaborazione reciproca che consiste nell’utilizzare il tempo della convivenza per risanare qualche crepa che sta lesionando le fondamenta della casa, in attesa che la situazione si normalizzi (fuor di metafora, che l’alternanza torni a essere possibile; oppure, ipotesi peggiore e meno probabile, che, se il nostro destino sta nel neo-centrismo, questo sia almeno chiaro ed esplicito, cioè politicamente spendibile senza infingimenti).
Le crepe a cui far fronte minano strutturalmente la nostra permanenza in Europa. A questo fine non negoziabile è necessario da parte nostra un recupero di efficienza del sistema-Paese (con una serie di politiche scolastiche, della ricerca, industriali e del lavoro, che ci faccia recuperare i venti anni perduti che abbiamo alle spalle), e, da parte europea, una revisione delle debolezze specificamente politiche della Ue, che deve accelerare drammaticamente la propria originaria vocazione democratica, perduta per via; dal combinarsi di questi sforzi deve risultare una riqualificazione della vita civile del Paese, una nuova speranza e una nuova cittadinanza per gli italiani, ciò di cui oggi abbiamo più bisogno. Ma per stare dignitosamente in un’Europa migliore, l’Italia deve anche farsi carico di un’altra crepa che mina la compagine nazionale: la mancanza di un efficiente sistema politico. Ricostruirlo non è la stessa cosa che riformare il sistema istituzionale, ed è anche più difficile ma non meno importante; anzi, forse lo è di più. Si tratta di ridisegnare i perimetri, le funzioni sociali e i ruoli politici dei partiti, rinnovandoli ma non rinnegandoli col trasformarli in comitati elettorali o in agglomerati d’interessi o in labili federazioni di correnti personali. È questo il nodo che è venuto al pettine, insieme a quello economico e produttivo. È questa la questione che, evidentemente, interpella il Pd, e che con ancora maggiore intensità scuote il Pdl, messo davanti, oggi, all’esigenza di scegliere se perire insieme al suo Capo o se immaginare per sé un futuro in cui la destra faccia gli interessi degli italiani e non di Berlusconi; in cui sia un partito moderato e non incline all’estremismo; in cui si concili pienamente con la Costituzione e con la democrazia parlamentare, purgandosi di ogni populismo.
Così, se la vita del governo, ragionevolmente prevedibile fino al 2015, non fosse interrotta da disperati escamotage o da improbabili avventure personali, o da inaccettabili strappi alla legalità, e invece rendesse possibile la riforma dei partiti, oltre che il risanamento economico in prospettiva europea, allora il sostenerlo potrebbe essere, anche da parte del Pd, non tanto una triste necessità quanto un impegno da assumere e da rivendicare senza alcuna vergogna davanti all’Italia.
L’Unità 19.08.13