Dice il ministro francese: «Quella classifica non rispecchia il nostro sistema accademico». Aggiunge più di un esperto: «I criteri utilizzati sono opinabili e parziali». E mentre qualche rettore festeggia, molti altri precisano, mostrano dati disaggregati, si appellano a studi precedenti. Critiche e polemiche. Almeno quattro volte all’anno. E proprio quando vengono pubblicate la graduatorie sui migliori atenei del mondo. L’ultima, in ordine di tempo, è l’Academic Ranking of World Universities (Arwu) della Jiao Tong University di Shanghai. Le università americane — secondo l’Arwu — sono le migliori. Quelle inglesi inseguono. Le nostre restano indietro (Pisa e «La Sapienza» avanti a tutte). E nemmeno le francesi se la passano tanto bene.
Uno studio, questo cinese, che affianca il Taiwan Ranking, il Qs World University Rankings e il Times Higher Education. Quattro classifiche che, a leggerle, non concordano nemmeno sul migliore ateneo. Per tre di loro al primo posto c’è Harvard. Per l’altra il Mit di Boston. E se, per esempio, la Johns Hopkins è medaglia d’argento per il Taiwan Ranking, lo stesso non compare nemmeno tra le prime dieci nelle altre graduatorie. Una «confusione» che non risparmia gli italiani. La Sapienza oscilla tra il 107° e il 216° gradino. La Statale di Milano tra il 97° e il 200°. Addirittura nessuna traccia di istituzioni tricolori nella «top 100» di Times Higher Education.
«Mi fa piacere che nella classifica appena pubblicata da Shanghai le cose per gli atenei francesi siano migliorate rispetto all’anno prima», ha esordito polemica Geneviève Fioraso, ministro transalpino dell’Istruzione superiore e della ricerca. «Ma questa graduatoria non riflette il livello reale del nostro sistema accademico».
Che succede? «La questione sta tutta nei criteri che si utilizzano», spiega Marino Regini, esperto di sistemi universitari ed ex prorettore dell’Università Statale di Milano. «Si tratta di quattro studi comunque validi, ma parziali». Prendiamo, per esempio, quella di Shanghai. «La metodologia — continua Regini — privilegia le pubblicazioni scientifiche, ma penalizza l’attività delle facoltà umanistiche. Per forza di cose noi non ci collochiamo molto in alto». «Certo, i tagli alla ricerca e un sistema per nulla competitivo non ci aiutano», ammette Regini. Che però trova del buono anche nell’Arwu: «Se prendiamo le prime 500 università c’è un indice di concentrazione delle nostre abbastanza alto».
«I criteri di una ricerca, anche se seri, sono per forza controversi», chiarisce Franco Donzelli, direttore del Dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi dell’Università degli Studi di Milano. «Certo, l’Arwu di Shanghai e quella di Taiwan hanno più di una “deformazione”». Una è linguistica: «Il lavoro privilegia gli studi in inglese ed esclude tutti quelli in italiano, francese, tedesco». L’altra è quantitativa: «Più ricerche pubblichi sulle riviste Nature e Science più acquisti punti: ma così finisci per favorire le grandi istituzioni accademiche». E i risultati, a sentire Donzelli, spesso sono «bizzarri». «Secondo i cinesi “La Sapienza” è la seconda migliore università italiana. Ma se andiamo a vedere i dati dell’Anvur, la nostra agenzia nazionale di valutazione, lo stesso ateneo non ne esce molto bene». Detto questo, «noi abbiamo le nostre colpe: per anni abbiamo privilegiato la qualità media dell’istruzione a scapito di quella d’eccellenza».
Anche Andrea Bonaccorsi, membro del Consiglio direttivo proprio dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, critica alcuni aspetti metodologici delle quattro graduatorie. «Ma togliamoci dalla testa l’idea di avere una classifica unica e certa», avverte. «Trovo in generale opinabile l’uso dei riconoscimenti storici a cui fanno riferimento alcuni ranking — spiega Bonaccorsi — perché così gli atenei antichi sono avvantaggiati». Non solo. «Penso che sia anche abbastanza arbitrario, per esempio, il modo in cui la Jiao Tong University aggrega i vari indicatori».
Bonaccorsi cita poi uno studio europeo che ha sottoposto tutte le classifiche internazionali delle università ad alcune «prove di robustezza» per verificarne la validità. «Soltanto le prime cinquanta posizioni sono risultate attendibili», sintetizza. «Tutte le altre presentano un tasso di errore molto elevato».
Insomma, fidarsi sì, delle graduatorie, ma fino a un certo punto. E come se non bastasse il prossimo anno ne arriverà una quinta. Si chiama «U-Multirank», è tutta europea (fondi compresi, messi a disposizione dall’Ue) e analizzerà circa 700 atenei di tutto il mondo. Una realtà «fortemente voluta dai governi del Vecchio Continente per contrastare proprio le altre quattro classifiche», rivela Regini.
Servirà? «Dipende», continua il professore. «Potrebbe farci capire come stanno davvero le cose. Oppure confonderci ancora di più». E allora saremmo punto e a capo.
Il Corriere della Sera 18.08.13