Non basta il decreto legge sul femminicidio a fermare lo stillicidio ormai quotidiano di uccisioni di donne, spesso da parte di mariti, fidanzati, amanti. Come non basteranno le norme contro l’omofobia, se e quando verranno mai approvate, a difendere le persone omosessuali dalla fatica di una vita quotidiana sempre ostaggio della (in)tolleranza e del disprezzo di persone che non solo credono di avere il monopolio della normalità, ma se ne fanno scudo per dar corso ai propri impulsi peggiori. Chi uccide va punito, chi minaccia di uccidere, o comunque tormenta, va fermato e se del caso punito.
Le leggi servono a definire un confine anche penalmente, e non solo moralmente e culturalmente, invalicabile. Non si uccide per amore o per gelosia. Tantomeno queste possono essere invocate come attenuanti. Non si può utilizzare l’omosessualità come insulto e come causa di discriminazione e dileggio sistematici. Per questo le leggi hanno anche una funzione comunicativa; fanno parte del discorso pubblico su come una società considera se stessa e le proprie relazioni. Le resistenze del Parlamento italiano a varare norme contro l’omofobia, da questo punto di vista, non sono un bel segnale della maturità del discorso pubblico su questi temi. Leggi come queste, che mirano a contrastare comportamenti distruttivi, servono ancora di più se mettono in campo risorse per la protezione delle vittime e per lo sviluppo di iniziative di prevenzione (la parte più vaga, ahimè, del decreto sul femminicidio e assente dalla proposta di legge contro l’omofobia).
La capacità di una norma di contrastare il comportamento che intende punire, tuttavia, non va sopravvalutata. Il timore della pena non trattiene il ladro, o l’evasore fiscale, che ritiene che il gioco valga la candela, o l’omicida che trova nell’atto di uccidere soddisfazione alle proprie pulsioni più profonde. Forse è proprio per il particolare tipo di soddisfazione che alcuni uomini trovano nell’uccidere una donna (che per lo più considerano propria) che gli assassinii di donne non sono diminuiti in questi anni, a fronte di una generale diminuzione degli omicidi. Analogamente, se qualcuno considera l’omosessualità e gli omosessuali una deformità contro natura e/o una tara morale, non basterà il timore di una pena per indur-
li a smettere di fare gli aguzzini dei loro compagni e a non usare le parole come pietre in una lapidazione quotidiana.
Così come è bene che ci sia una legge che dice che non solo uccidere è reato ma farlo perché si ritiene l’altra una proprietà è un’aggravante, è necessaria una legge che dica che quando un’opinione diventa un’arma distruttiva, utilizzata per umiliare ed emarginare qualcuno, non è più in gioco lalibertà di opinione ma il diritto al rispetto e all’integrità personale. Ma occorrono anche un discorso pubblico complessivo, comportamenti pubblici, modalità educative che esprimano concretamente il rispetto dovuto a ciascuno, indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale. Se nella vita quotidiana e nelle decisioni che contano le donne continueranno ad essere considerate cittadine di serie B, molti uomini continueranno a sentirsi autorizzati a trattarle come tali anche nei rapporti privati. E molte donne continueranno a ritenersi persone di serie B, con meno diritti, accettando richieste e violenze rischiose.
La legge di contrasto all’omofobia, se mai passerà, rimarrà solo simbolica se in società le persone omosessuali continueranno ad essere considerate una anomalia tendenzialmente pericolosa, senza gli stessi diritti degli eterosessuali ad una vita affettiva e famigliare. Se l’omosessualità, ma anche i modi diversi di essere maschi e femmine, non vengono detti ed elaborati come parte del caleidoscopio della normalità. Qualsiasi prepotente troverà legittimo e normale accanirsi su chi non risponde a standard “normali” stereotipici. Un bel romanzo di Catherine Dunne, Quel che ora sappiamo, racconta quanto ciò possa diventare intollerabile anche al ragazzo più intelligente ed amato, senza che genitori molto attenti e persino esperti riescano a coglierne per tempo i segnali. Anche perché dell’indicibile, di ciò che non viene mai nominato (inclusa l’incredibile capacità di cattiveria di alcuni ragazzi), è difficile parlare, confidarsi.
L’adolescenza è un periodo della vita fragilissimo, in cui le prove di identità sono una fatica e un rischio per tutti e il giudizio dei propri pari, ma anche di genitori e insegnanti, un quotidiano giudizio di Dio. Dovremmo fare di tutto per evitare che per qualcuno si trasformi in un inferno senza ritorno.
La Repubblica 14.08.13