Ci sono sei corpi allineati sulla battigia di Catania. Corpi senza nome e senza passato. Il sudario color oro riflette la luce abbacinante di agosto. L’immagine inchioda il nostro sguardo. Siamo davanti all’istantanea di un incubo che si avvera, come una beffa. A pochi metri dall’approdo, dopo giorni di navigazione incerta, forse per l’impazienza di accorciare la distanza dalla salvezza, sei uomini si tuffano in mare, ma il mare li risucchia.Deve essere andata così. Forse è andata così. Ci saranno elementi da verificare nella dinamica dei fatti, ma non possiamo più domandare a quegli uomini cosa li ha spinti a lanciarsi dal peschereccio, appesantiti dai panni e dalla stanchezza, per arrivare a nuoto alla meta. Forse è stata colpa dell’allegria d’aver scampato un naufragio. La smania di toccare terra, bracciata dopo bracciata.
Sono ipotesi. Domande lanciate nel vuoto. Ma le risposte ci riguardano. Perché quei sei corpi senza vita e senza voce non sono finiti nel fondale silenzioso del Mediterraneo. Lontani dal nostro sguardo e dalla nostra coscienza. Sono qui, davanti a noi, distesi ordinatamente sotto il sole. Come uno scandalo. Anche questa volta un motopeschereccio portava il suo carico umano. Centoventi persone in fuga dalla Siria e dall’Egitto. Giorni di navigazione, in attesa di arrivare ad un porto più sicuro.
I sei corpi distesi sulla spiaggia, a pochi metri da tre navi da crociera all’attracco, ci inchiodano al nostro destino. Ci impongono di dire da che parte stiamo. E non è possibile rispondere in modo ambiguo, o tirarsi indietro, come ha fatto il governo di Malta qualche giorno fa, lasciando vagabondare, per tre giorni, un peschereccio carico di 102 profughi eritrei e sudanesi, tra cui cinque donne incinte e un neonato di inque mesi. Dopo ore convulse di trattative, il braccio di ferro tra l’Unione Europea e Malta è stato rotto per volontà di Enrico Letta: l’episodio ci fa onore come italiani, ma ci fa vergognare come europei.
Il principio di assistenza, e di ospitalità, è una legge sacra che viene da lontano; dovrebbe fondare la nostra cultura. E forse anche la nostra missione comunitaria; la nostra umanità. È un dovere, forse anche un precetto morale, più significativo delle obiezioni dei cinici o di quanti – come l’allora eurodeputato leghista Speroni, nel 2011 – pensavano di affrontare la questione mitragliando i gozzi tunisini.
I sei corpi della playa di Catania fanno parte di un ciclo di racconti – una saga tragica – che erode i confini delle acque del Mare Nostrum: si tratta di tragedie internazionali che raccontano di vite in fuga dalla guerra e dalla fame; di fondali sommersi, dove sono sparse le ossa
di migliaia di uomini, di donne, di bambini.
E anche se le storie si assomigliano, abituarsi alla disperazione – o, peggio, difendersi dalla sofferenza degli altri – è il primo male dell’Europa mediterranea.
Non a caso, forse, il primo viaggio di papa Francesco è approdato a Lampedusa. Alla nostra isola, simbolo di tragedia, e di coraggio. Scandalizzando i duri di cuore, Francesco ha detto parole ferme, inequivocabili, contro la «globalizzazione dell’indifferenza».
Inutile girarci intorno. Credenti e non, c’è una, e una sola risposta: accogliere l’altro. Quello che ci fa paura perché ci ricorda che ciascuno di noi è fragile; che ciascuno di noi ha fame e ha sete; che ciascuno di noi potrebbe dover fuggire da una terra di guerra, mettendo in salvo la vita dei figli, anche quelli che si portano in grembo.
In fondo, è questo che imbarazza gli indifferenti: l’amore smisurato per la vita che queste storie ci rimandano. Il Papa ha lanciato una corona di fiori sull’acqua. Un omaggio a quei corpi affondati per scappare dalla miseria, e dalla morte. Quei corpi che non hanno avuto la dignità, dovuta, di una sepoltura.
Quella dignità che Antigone, con le sue leggi non scritte, rivendicava al cospetto di Creonte, il legislatore. L’Europa dell’economia è seduta sul Mediterraneo: ma le leggi non bastano a fondare una civiltà. Senza parole, i sei corpi sulla spiaggia di Catania ci dicono che non si può voltare lo sguardo: solo l’indifferenza è senza scampo.
L’Unità 11.08.13