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“Gli stranieri d’Italia tra drammi e integrazione”, di Chiara Saraceno

Le drammatiche immagini degli sbarchi a Lampedusa, la tragedia di ieri a Catania, lo stillicidio dei dispersi in mare, le facce scoraggiate di coloro che sono ammassati nei centri di accoglienza – tutto questo continua ad alimentare nel nostro paese una visione pressoché solo emergenziale dei migranti. Eppure, senza negare per nulla la drammaticità di questi fenomeni, da anni il flusso di cittadini stranieri nel nostro Paese non è solo questo: non lo è né per il modo in cui le persone arrivano (per lo più via terra o in aereo, con visti turistici), né per i modi della loro permanenza. Continuare a considerare solo l’emergenza può contribuire alla retorica politica, non alla comprensione e, soprattutto, alla elaborazione di strategie di inclusione efficaci. Eppure non mancano, ormai, dati e analisi che offrono un quadro più preciso del fenomeno, (come dimostrano tra l’altro anche i testi raccolti in Stranieri e disuguali, il saggio edito dal Mulino curato da N. Sartor, G. Sciortino e da me per la Fondazione Ermanno Gorrieri).
La popolazione straniera – circa quattro milioni solo i legalmente residenti – costituisce ormai una porzione significativa della popolazione residente in Italia, di cui ha contribuito a cambiare il profilo demografico (ringiovanendolo) e sociale. La maggioranza degli stranieri si trova nel nostro paese da decenni e una parte crescente, i minori, è nata qui. Si tratta di una popolazione sempre meno “irregolare”, anche se può esserlo stata nel passato, stabilmente inserita nei segmenti meno qualificati del mercato del lavoro. Per quest’ultimo motivo, pur con notevoli differenze interne per paese di provenienza e caratteristiche personali, presenta netti profili di svantaggio sociale rispetto alla media della popolazione italiana. Ciò deriva solo in parte dall’origine migratoria. In larga misura dipende dal fatto che gli immigrati che arrivano in Italia, a differenza di quelli che si dirigono verso altri paesi, hanno prevalentemente caratteristiche di qualificazione professionale simili a quelle del segmento più basso della popolazione italiana e sono occupati nei lavori a più bassa qualifica e remunerazione.
Eccezione tra gli altri paesi europei, stante le caratteristiche della domanda di lavoro, l’Italia è divenuta un paese che esporta forza lavoro altamente qualificata (la famosa “fuga dei cervelli”) e importa forza lavoro a bassa qualifica. Nel caso degli immigrati, inoltre, ancora più che per gli italiani, l’Italia non favorisce una mobilità ascendente che consenta di passare da lavori a bassa qualifica a lavori un po’ più qualificati e, in generale, di ridurre le disuguaglianze sociali. Nel nostro paese, quindi, gli immigrati e i loro figli cumulano gli svantaggi derivanti dal doversi adattare ad una cultura diversa e dall’avere in loco reti famigliari e sociali più ridotte degli italiani più poveri e meno qualificati. Le loro retribuzioni medie sono inferiori di oltre un quinto a quelle medie degli italiani; e il loro reddito famigliare è inferiore del 40 per cento rispetto a quello degli italiani.
Per questo hanno una elevata incidenza di povertà, che nel caso dei minori supera il 50 per cento. Hanno riserve (risparmio) più ridotte e perciò sono molto più vulnerabili di fronte a una improvvisa perdita di reddito. Vivono più spesso in affitto; e devono pagare affitti mediamente più alti. Questo svantaggio è solo parzialmente compensato dall’accesso alle abitazioni di edilizia popolare a livello locale, stante la vera e propria penuria che caratterizza le politiche abitative pubbliche (che non gestiscono neppure la domanda, percentualmente più ridotta, degli italiani) e per la loro forte eterogeneità locale.
Il basso reddito delle famiglie straniere, unito alla minore competenza linguistica dei genitori e alla difficoltà di utilizzare efficacemente nella società d’inserimento il capitale sociale e culturale familiare, hanno effetti anche sulle chance delle generazioni più giovani. In particolare, con maggiore intensità che per gli italiani le cui famiglie sono in condizioni economiche più sfavorite, i figli degli immigrati, benché pienamente inclusi dal punto di vista relazionale, hanno percorsi scolastici più brevi, frequentano maggiormente scuole tecnico-professionali e hanno rendimenti più bassi dei loro coetanei italiani.
Infine, più poveri e più svantaggiati in media della popolazione italiana, contrariamente all’opinione comune gli stranieri, specie di prima generazione, sono tuttavia contributori netti alle finanze pubbliche, nella misura in cui restituiscono in tasse e contributi più di quanto ricevano nel corso della vita, e più degli italiani. Il riequilibrio avviene solo con le seconde generazioni.
Dall’insieme di queste analisi emerge che efficaci politiche di integrazione non sarebbero, in realtà, molto diverse da politiche intese a ridurre le disuguaglianze economiche e sociali nella popolazione nel suo complesso. Lungi dal configurare un conflitto tra poveri, un tale approccio sarebbe a favore delle fasce più svantaggiate della popolazione, italiana o straniera che sia.

La Repubblica 11.08.13