Prevedere i punti di svolta del ciclo economico è un esercizio molto difficile. Si riesce, dall’esame degli indicatori, a capire la tendenza ma localizzare quando il ciclo invertirà, manifestando una ripresa dopo una recessione, è piuttosto arduo. Ne abbiamo una prova anche in questa fase: nel 2012 la ripresa era annunciata per gli inizi del 2013, è stata poi spostata a metà di quest’anno, passata la quale è ora attesa per l’autunno o (per i più pessimisti) per l’inizio del prossimo anno. Se vi è incertezza sul quando la ripresa avverrà, vi è invece maggior certezza (e non è una buona notizia) sulle caratteristiche che questa avrà: sarà molto lenta. In uno scenario realistico, alla fine del 2018 – ovvero alla fine di questa legislatura (se verrà portata a compimento) – l’Italia avrà recuperato il livello di prodotto del 2008. Undici anni per tornare al punto di partenza. Undici anni senza il minimo progresso economico. Neppure quello già di per sé insoddisfacente del decennio pre-crisi. La lentezza prevista della ripresa è a sua volta figlia della profondità e durata della recessione. Vi concorrono diversi fattori. Qui ne cito tre che è bene tenere ben presenti. Primo, la difficoltà delle imprese di ottenere credito sul mercato è fenomeno che si protrarrà a lungo, anche quando le condizioni del mercato del credito si saranno parzialmente normalizzate. L’offerta di credito bancario è destinata a contrarsi negli anni a venire, per consentire alle banche di ricostruire i propri bilanci e ridurre la leva finanziaria. La bassa redditività delle banche comporterà una forte ristrutturazione e una contrazione pronunciata del l’intermediazione bancaria. La dipendenza delle imprese italiane dal credito bancario e la mancanza di forme dirette di finanziamento delle imprese, innanzitutto un mercato sviluppato dei corporate bonds, accentuerà le conseguenze di questo processo sulla disponibilità di credito, rallentando la ripresa e limitando il potenziale di crescita delle imprese più dinamiche e innovative (che pure esistono). Con Guido Tabellini abbiamo richiamato più volte su queste colonne l’importanza di avviare un processo di riorganizzazione dei flussi dei fondi in modo da spostare il baricentro dell’offerta finanziaria rendendolo meno banco-dipendente. Il secondo elemento che contribuirà a rendere la ripresa lenta riguarda il comportamento di consumo delle famiglie e quindi la dinamica della componente più importante della domanda interna. Le famiglie italiane hanno fronteggiato i cinque anni di recessione trascorsi attingendo a piene mani alla ricchezza accumulata nei decenni precedenti. Nei cinque anni di crisi, tra il 2008 e il 2013, la famiglia media ha speso oltre 50 mila euro dei risparmi passati per mantenere gli standard di consumo, aiutare un membro che aveva perso il lavoro, sostenere l’impresa di famiglia e perfino finanziare l’aggravio di imposte chiesto dal governo per gestire la crisi di fiducia sul debito. Il sacrificio è notevole, pari a più di un anno del reddito disponibile della famiglia media. La grande recessione lascia in eredità alle famiglie il compito di ricostituire i risparmi per non dover rinunciare agli obiettivi che avevano in mente di perseguire, non ultimo la creazione di una riserva per la pensione. Ma questo implica che negli anni a venire assisteremo a una compressione della propensione alla spesa al di sotto del livello medio tradizionale fintanto che l’obiettivo di risparmio non verrà conseguito. Ne seguirà una domanda interna blanda e una ripresa lenta. Il più difficile accesso al credito che anche le famiglie dovranno affrontare negli anni a venire contribuirà ad accentuare la necessità di ricostituire scorte di risparmio precauzionale, frenando la ripresa. Il terzo elemento che contribuirà a rallentare la ripresa opera dal lato dell’offerta. Molte imprese sono state spazzate via dalla recessione. Alcune hanno cessato perché particolarmente deboli e non più capaci di stare sul mercato. Lo spazio occupato da queste è probabile che sarà riempito facilmente da concorrenti italiane più efficienti. Molte però sono uscite dal mercato perché il calo di attività è stato violento e le ha portante sotto la soglia minima di profittabilità; esso è durato troppo a lungo per resistere sul mercato finanziando le perdite con le riserve accumulate o con il ricorso al credito (sempre più difficile) in attesa della ripresa. Si tratta in questo caso di imprese efficienti che sarebbero sopravvissute in condizioni cicliche normali o di fronte a una recessione meno acuta e persistente, o anche a questa recessione se no fosse stata accompagnata da un credit crunch. La sostituzione delle loro produzioni da parte di altre non è né facile né immediata. Il loro rientro sul mercato una volta avviata la ripresa non sarà affatto garantito. Alcune si sono riallocate fuori dai confini nazionali, per quelle rimaste e disposte a ricominciare, farlo sarà arduo. In parte perché l’uscita dal mercato ha reso le loro conoscenze obsolete, ma ancor più perché non hanno capitali propri (avendoli spesi per far fronte alla grande recessione) e ottenere fondi esterni sarà difficile. La domanda per le loro produzioni, sia proveniente dall’estero che dall’interno rischia di non essere soddisfatta per carenza di offerta, ostruendo la ripresa. Ritorniamo ancora una volta al problema del credito. Affrontarlo di petto ancor più di quanto il governo non stia facendo è condizione sine qua non per non morire di inedia.
Il Sole 24 Ore 10.08.10