Nel corso della sua esperienza di statista mancato, Silvio Berlusconi ha sempre trasformato le questioni politiche in problemi giudiziari e le grane giudiziarie in emergenze politiche. Anche adesso, che dovrebbe gestire in modo sobrio la sua inevitabile fuoriuscita dalla vicenda istituzionale, il Cavaliere si arrocca in una postazione indifendibile.
E, per resistere ciecamente agli
eventi per lui divenuti assai negativi, confonde in maniera regressiva il piano del diritto e quello della politica.
La sua esperienza, che pure secondo il racconto ufficiale del ventennio si è svolta per intero nella dimora della leggerezza e dell’immaginario, ripropone in realtà l’ambiguità classica, e per certi versi demoniaca, del rapporto tra forma e potenza, tra opportunità e norma. Anche in uno Stato costituzionale di diritto, dei grandi principi che parrebbero scontati e consolidati (certezza della legge, eguaglianza dei cittadini dinanzi alla norma, rispetto delle sentenze giudiziarie ormai definitive) diventano dei momenti controversi. Tutto si complica se i giudici colpiscono un potente con alle spalle un ruolo egemonico nel campo del denaro, dei media, della politica.
Quando una regolare condanna scalfisce la posizione di dominio e minaccia il rango di un grande potente, la vicenda non si chiude certo, come invece dovrebbe, con la lettura della sentenza ma si trasferisce nelle piazze, nelle aule parlamentari, nei media amici, pronti a colpire con macchine del fango. Alla vecchia e costosa (per l’ordinamento liberale) strategia di difendersi dai processi (grazie a pattuglie di deputati-avvocati impegnati nella dura battaglia procedurale per perdere tempo e arrivare così alle prescrizioni; in virtù della emanazione di reiterate leggi ad personam escogitate solo per cancellare dei delitti e delle pene) il Cavaliere adesso intende sostituire una nuova e non meno perversa strategia, quella di avvalersi delle truppe rimaste fedeli per difendersi in aula parlamentare dalla sentenza sgradita.
Un principio che risale ad altri tempi (il diritto del Parlamento ad esprimersi in merito alla sua composizione) e rispondeva ad altri dilemmi, la sovranità dell’aula rispetto all’invadenza di grandi potestà esterne, viene ora
recuperato, e del tutto trasfigurato, per costruire delle inaccettabili situazioni di eccezione e di pregiudiziale ostilità rispetto alla puntuale applicazione della legge. In questa estrema e cupa resistenza del Cavaliere, trova conferma il tratto del tutto anacronistico di un non-partito personale che opera come una potenza privata estranea alla democrazia costituzionale, ed è pronta a inquinare, provocare, minacciare, distruggere.
Un partito proprietario-carismatico è disponibile a sfidare la legge pur di proteggere il capo sventurato. È pronto a respingere le procedure legali pur di obbedire all’azienda di riferimento, insidiata nella sua attività protesa al lucro. Per questo la destra intende ora trasformare la emplice e scontata attuazione di una regolare sentenza passata in giudicato in una grande disputa politica. Ma il Parlamento non deve verificare, in nome della opportunità politica, la sussistenza delle condizioni oggettive per la decadenza di un leader che ha subìto una condanna. Palazzo Madama non può che ratificare la decadenza di Berlusconi da senatore. Non ci sono alibi dopo la sentenza della Cassazione. La politica non può sostituirsi al diritto.
Del resto è piuttosto palese la contraddizione in cui cade il Pdl. Quando la disputa ancora verteva sulla ineleggibilità del Cavaliere per via delle sue concessioni televisive, la destra rifiutava con forza ogni intervento esterno della politica. E, in nome del senso letterale della legge e delle consuetudini, richiamava la piena validità del dispositivo formale del lontano 1957. Ora che in gioco è la decadenza di Berlusconi, il canone formale della norma giuridica è rigettato in nome del primato della politica, sollecitata a dire l’ultima parola, ignorando, in forza delle immediate convenienze, le ragioni del diritto. Il rapporto tra politica e diritto non può però fondarsi sul più sfacciato calcolo delle opportunità.
Certo, in questa delicata materia (eleggibilità, decadenza, doppi incarichi), una possibile riforma dovrebbe riconsiderare i poteri delle assemblee e riconoscere compiti di sorveglianza ad un organo terzo, come la Corte costituzionale. La soluzione di enigmi che non possono prestarsi ai giochi delle maggioranze, alla contrattazione tra i gruppi, al rapporto di forza è più credibile e meno conflittuale se affidata ad un organo di garanzia. Ma ciò non significa che attualmente esistano dei margini di incertezza. Il problema della decadenza è comunque risolto anche nella vigente legislazione. L’aula deve semplicemente prendere atto che Berlusconi non può più sedere tra i banchi di Palazzo Madama.
L’Unità 08.08.13