Posta di fronte al «fatto enorme» (parola di Epifani) della condanna definitiva di Berlusconi, la direzione del Partito Democratico oggi è costretta a fare i conti con la paura di cambiare che la attanaglia. I primi cento giorni del governo Letta sono vissuti con imbarazzo: lo stesso Epifani parla di un governo con le mani legate dal debito pubblico, ostaggio degli eccessi di rigorismo dell’Unione europea, vincolato dai parametri di bilancio imposti all’Italia.
Insomma, nessuna svolta riformista di cui la sinistra possa menar vanto: il segretario del Pd riconosce che Letta sta facendo solo «piccole cose, buone ma piccole».
Eppure, ben al di là dei rapporti di forza parlamentari con cui il Quirinale l’ha costretto a fare i conti, permane in questo gruppo dirigente un dubbio esistenziale. L’eventualità di governare l’Italia senza la destra, nel bel mezzo di una crisi drammatica e dall’esito ignoto, è davvero augurabile?
Le oscillazioni e l’insicurezza sono sintomi talmente fastidiosi che ci viene fin troppo facile accusare il Pd di autolesionismo. Ma non è certo invidiabile la posizione di chi guida in Italia un partito riformista tuttora sprovvisto di convincenti terapie alternative per la cura della malattia misteriosa che dal 2008 ha ridotto del 25% la produzione industriale, impoverito la maggioranza dei cittadini, aggravato il debito pubblico, diminuito e resi più precari i posti di lavoro. La Grande Depressione non apre certo scenari rivoluzionari in alternativa al fallimento dei riformisti. Ma costringe semmai questi ultimi a fare i conti con gli eccessi di compiacenza mostrati nei confronti della grande finanza globalizzata. Questione scomoda da elaborare. Nel frattempo, messi alle strette, i principali dirigenti del Pd forse si stanno chiedendo se non sia solo velleitaria, ma perfino sconveniente, la fine dell’alleanza col Pdl cui Napolitano li “costringe” dal novembre 2011.
Dietro ai pretestuosi litigi sulle regole congressuali e dietro all’ormai stantio dilemma “Renzi o non Renzi”, s’intravedono motivazioni più profonde che rendono ostico al Pd riconoscersi nel governo Letta. Basti pensare, in estrema sintesi, al paradosso per cui il più “eretico” dei dirigenti economici del partito, Stefano Fassina, è stato chiamato a fare il vice del ministro più “ortodosso” del governo stesso, Fabrizio Saccomanni. Come già nel governo Monti, anche nel governo Letta si è voluto garantire che i processi decisionali in materia economico- finanziaria siano delegati a figure di tramite, rese autorevoli in Europa dalla loro fisionomia tecnica. Il medesimo paradosso rovesciato s’incarna nell’avventura di Fabrizio Barca che durante la settimana lavorativa fa il dirigente al ministero dell’Economia per poi, durante il week end, mettere in guardia i militanti del Pd da quelle stesse compatibilità di cui egli fu portatore come ministro tecnico del governo Monti.
Né per Fassina né per Barca si può parlare di furbizia. Al contrario. Essi personificano il disagio di essere chiamati a recitare in commedia un copione diverso, se non opposto, a ciò in cui credono. Per quanto tempo ancora ha da protrarsi la forzatura di un’ortodossia imposta dall’esterno sulle gracili spalle della sinistra riformista italiana, prima che le tocchi il destino dei socialisti greci del Pasok, ridotti ai minimi termini per lealtà ai diktat europei?
La destra non ha simili problemi di credibilità. Può stare nel governo di unità nazionale per convenienza del suo capo evasore fiscale condannato, e al tempo stesso sparare cannonate contro l’euro e la Merkel. Può condividere con Casaleggio una visione catastrofista del futuro incognito che ci attende, magari pregustando come fa Grillo i vantaggi
elettorali che la sofferenza sociale gli garantirà. La sinistra invece non può essere catastrofista. Nel 2013 non promette rivoluzioni miracolose, è per sua natura europeista, rifiuta di contrapporre i popoli l’uno all’altro. Pesa troppo su di noi la memoria delle tragedie novecentesche. Ma se anche i presagi di ripresa economica amplificati da governo e Bankitalia fossero veritieri, chissà quando, non toccherà alla sinistra poterla rivendicare, dato il contesto di ingiustizia sociale e perdita di diritti in cui s’inserisce.
Succede così che lo stato di necessità in cui il Pd si trova imbrigliato almeno dal novembre 2011 – quando Napolitano nominò Monti senatore a vita e organizzò il sostegno parlamentare al suo governo tecnico – espunga dal suo dibattito interno le questioni più scabrose. Ha senso, come e quanto, pagare gli interessi su un debito pubblico che rimarrà inestinguibile? Dove reperire le risorse per interventi efficaci contro la povertà? È attuabile una “tosatura” della finanza speculativa? Il fiscal compact
è un imperativo categorico? Gli accordi internazionali sottoscritti sulle spese militari sono modificabili?
Mantenersi volutamente ambigui su scelte dirimenti di questa natura, come su tante altre, è certamente spiegabile con la loro estrema difficoltà. Ma il non scegliere ha già condannato la politica all’impotenza e all’eterodirezione. Rassegnarsi all’eccezionalismo come regola induce a perdere la fiducia in se stessi. E spiega perché oggi qualcuno nel Pd viva ancora come necessario perfino l’appoggio di una destra che predica la sospensione del principio di legalità a vantaggio del suo capo.
La Repubblica 08.08.13