«Nessuno deve sentirsi escluso. Siamo partiti con la lotta alle discriminazioni di genere, poi ci siamo occupati di quella alle discriminazioni verso i dipendenti Glbt, tra poco sarà la volta di etnia e età». Lars Petersson, amministratore delegato di Ikea in Italia, è fiero del clima politicamente corretto che si respira nella sua azienda. E assicura che le norme in favore dei dipendenti Glbt che hanno fatto vincere agli store italiani di arredi il primo premio istituito da Parks non hanno nulla a che fare col marketing: «Vogliamo che tutti i dipendenti si sentano egualmente a loro agio. Proprio come i nostri mobili che sono per tutti». Si chiama diversity management, e un numero sempre crescente di aziende italiane lo sta adottando in uffici, negozi, fabbriche. Per aiutarle è nata una fondazione intitolata a Rosa Parks (la dirige Ivan Scalfarotto) che ha interpellato le 50 principali società italiane per conoscere atti e opinioni in merito e alla fine della ricerca ha premiato proprio Ikea e una banca, la State Street (ex Intesa Sanpaolo).
Ma il fenomeno è molto più vasto, e non mancano gli esempi di welfare “fatto in casa” in favore dei dipendenti gay, come l’azienda di Rogoredo (Milano) che ha deciso di riconoscere una settimana di ferie pagate a chi si iscrive al registro delle unioni civili o quella di call center a La Spezia che riconosce il congedo matrimoniale a chi va a sposarsi all’estero. Un filo rosso unisce tutti i casi: la convinzione che il pieno riconoscimento dei diritti dei dipendenti faccia fiorire il business, e magari provochi anche un positivo ritorno di immagine. Il tutto a proprie spese. «Non vogliamo entrare nel merito degli aspetti etici — spiega Umberto Costamagna, presidente di Call & Call — a noi interessa semplicemente la parità di trattamento, che è un dovere riconoscere a tutti». Ancora una volta, sul fronte dei diritti civili il paese reale sembra essere un po’ più avanti delle leggi. Come prova a spiegare Dario Longo, uno dei sette soci-avvocati di Linklaters in Italia: «La vita familiare delle persone Glbt è spesso invisibile sul luogo di lavoro, con ripercussioni che possono essere negative in termini di carriera. Supponiamo che un capo debba scegliere tra due candidati per una promozione: di uno conosce il coniuge e i figli, incontra la famiglia alle feste aziendali e vede le foto delle vacanze. Dell’altro, ugualmente bravo e qualificato, non sa nulla al di fuori dell’ufficio. A noi è capitato di valutare il robusto curriculum di un aspirante collaboratore che stava cambiando sesso. Ci siamo resi conto di non essere ancora del tutto pronti, ma l’abbiamo assunto ed è stata un’ottima idea». Per Riccardo Lamanna, ceo di State Street in Italia, il cammino è appena iniziato: «Siamo stati premiati per le azioni intraprese, anche grazie alle nostre radici americane. Per il momento, siamo riusciti soprattutto a promuovere la comunicazione interna, organizzando incontri dedicati a famiglie e diritti aperti a tutti. Dietro l’angolo c’è l’estensione concreta di congedi e assicurazioni. Ma intanto ci stiamo confrontando col fatto che è difficile far emergere ciò che non si vede».
Più di tutto, possono gli esempi concreti, come quello di Andrea e Leonardo, che hanno messo su casa e si sono registrati al Comune di Milano. Confetti personalizzati e oltre cento invitati, mentre la Zeta Service, dove lavora Andrea, decideva di equiparare in tutto e per tutto la loro unione a un matrimonio civile, vacanze comprese. «Quando l’ho saputo — racconta lui — mi sono sentito tutelato in tutto e per tutto, come dovrebbe essere sempre. E per la gioia mi sono messo a piangere ».
La Repubblica 05.08.13
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“E ora la legge contro l’omofobia, una conquista di civiltà”, di MARIA ELENA VINCENZI
È prevista oggi alla Camera la discussione generale sul disegno di legge che equiparerebbe il contrasto all’omofobia e alla transfobia a quello per l’odio razziale o religioso. Ma c’è una parte del Pd (e non solo) che ha paura che, come già successo nella scorsa legislatura, l’estensione della legge Mancino salti anche questa volta. «È una norma che permetterebbe all’Italia di fare un passo avanti su un tema che, ovunque in Europa, ha smesso di suscitare polemiche». Michela Marzano, filosofa e deputata del Pd, è stata una delle promotrici del disegno di legge. E oggi sarà in aula a votare sì.
Onorevole, l’iter finora sembra essere filato liscio, cosa dovrebbe cambiare?
«Innanzitutto il testo arriva in aula incompleto, manca tutta la parte delle aggravanti per omofobia e transfobia che noi proporremo come emendamento, ma non so se avrà l’ok dell’aula. Senza, sarebbe solo una legge vuota e anche io voterei no».
Questi gli ostacoli pratici. Ma quanto c’è di ideologico in chi rifiuta queste modifiche?
«Ci sono motivazioni assolutamente fuorvianti che sembravano essersi finalmente sopite, ma che si sono riaccese alla vigilia della discussione. La prima obiezione riguarda il timore che la legge crei un reato di opinione tale da impedire di dire la propria sull’omosessualità. Non è così: quello che si vuole vietare è l’hate
speech, per dirla all’americana, ovvero l’istigazione alla violenza contro trans e gay, ma tutti resterebbero liberi di esprimere il proprio parere civilmente. Si vuole far passare l’idea che se la norma venisse approvata sarebbe vietato dirsi contrari ai matrimoni gay. Non è così. Le opinioni sono libere. Gli insulti violenti, però, non possono esserlo». Poi c’è la questione dell’uguaglianza.
«Alcuni hanno voluto ribaltare l’ottica delle cose e far credere che inasprire le pene per omofobia e transfobia sia una violazione del principio di uguaglianza stabilito dalla Costituzione. Come se tutelare chi oggi è discriminato in base al proprio orientamento sessuale o alla propria identità di genere introducesse altre forme di discriminazione. È un grosso errore: sin dalla sua prima formulazione, con Aristotele, per uguaglianza si è inteso il concetto di dare cose uguali a chi è uguale e cose diverse a chi è diverso.
Non stiamo parlando di identità: siamo tutti diversi e come tali dobbiamo essere protetti».
Onorevole, lei teme che la legge non passi?
«Potrebbe essere. Non bastasse questa ostilità trasversale del mondo cattolico, c’è anche il rischio di una strumentalizzazione politica. Non si vuole che sul tabellone della Camera compaia una maggioranza diversa da quella di governo (una parte del Pd, Sel e forse del M5S sono d’accordo). Se queste motivazioni, insieme o singolarmente, riuscissero a bloccarla di nuovo, ci troveremmo, ancora una volta, davanti a una grande occasione persa. Di civiltà».
La Repubblica 05.08.13
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