attualità, politica italiana

“Ma il conto non lo paghi il Paese”, di Mario Calabresi

Ora c’è da chiedersi se bisogna far pagare il conto della condanna di Berlusconi al Paese, a tutti gli italiani, o se per una volta la razionalità può prevalere. Se possiamo provare ad uscire dalla crisi in cui siamo sprofondati o se ci dobbiamo imbarcare in una nuova stagione di grida, lacerazioni e campagna elettorale (sempre con la stessa terribile legge, dettaglio da non dimenticare mai).

Enrico Letta ieri mattina, mentre i giudici della Cassazione entravano in camera di Consiglio, si riuniva per cominciare a preparare il semestre di presidenza italiana della Ue che inizierà il primo luglio dell’anno prossimo. L’unica salvezza pare quella di guardare avanti, caparbiamente, senza farsi travolgere dai colpi di coda di un ventennio di rissa continua.

Il Paese può immaginare un percorso, può sperare di vedere crescere quei fili d’erba di ripresa che vengono segnalati in alcuni segmenti produttivi (grazie soprattutto alle esportazioni), può sperare di vedere il segno positivo di fronte ai dati sul Pil a partire dal prossimo anno e avrebbe diritto ad avere un governo che su questo si concentra. Oggi in Italia la domanda è una sola: i miei figli troveranno lavoro, io salverò il mio?

Tutto il resto non è fondamentale di fronte all’angoscia di un futuro che si sbriciola.

La Cassazione si è pronunciata, un iter giudiziario è finito, si può protestare la propria innocenza e denunciare una persecuzione ma a questo punto non esistono scappatoie, spallate o forzature. Esistono solo iter che ci si augura siano corretti e ordinati.

Il presidente della Repubblica ha invitato a rispettare la magistratura, il segretario del Pd Epifani fa capire che il suo partito è pronto a portare avanti l’esperienza di governo ma non a tollerare strappi istituzionali e colpi di testa del partito di Berlusconi. Siamo a un bivio, in poche ore potrebbe sfasciarsi tutto ancora una volta o si potrebbe finalmente vivere in un Paese in cui una sentenza, che colpisce un politico nelle sue vesti di imprenditore, non determina il destino di un governo.

Gli italiani assistono, la gran parte come spettatori, a questo finale. Guardano da fuori chi ha in mano il loro futuro e scrutano per vedere se verrà appiccato l’incendio. Sono convinto che quelli che lo auspicano siano una minoranza, non perché la maggioranza ami l’idea di un governo di larghe intese ma perché prevale lo sfinimento e la nausea verso la guerra totale. Una guerra che non ha costruito nulla e che ha trascinato la politica in fondo alla scala del gradimento e della stima.

I prossimi giorni saranno cruciali, la navigazione sarà difficilissima, ma la domanda fondamentale è se la maledizione italiana, essere sempre prigionieri del passato, condannati a vivere con la testa che guarda all’indietro, sia destinata a protrarsi o possa svanire.

La Stampa 02.08.13

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LE CONSEGUENZE DELLA VERITÀ, di EZIO MAURO
Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l’avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta, trascinando nella rovina vent’anni di storia politica travagliata del nostro Paese.
La Corte di Cassazione ha infatti confermato la condanna di Berlusconi a quattro anni per frode fiscale, chiedendo alla Corte d’Appello di rideterminare il calcolo della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici, dopo che il Procuratore Generale aveva proposto di ridurla. La condanna diventa dunque definitiva, il crimine è accertato, e tutto il mondo oggi sa che Berlusconi ha frodato il fisco, la sua azienda, gli altri azionisti e il mercato, per costruirsi una provvista illecita di fondi neri all’estero da usare per alterare un altro mercato, quello delicatissimo della politica.
Di questa storia titanica ed enormemente dilatata dalla dismisura populista e dalla sproporzione economica, tutto viene a morire dentro la sentenza di Cassazione, azienda, politica, affari, partito e infine, e soprattutto, una concezione illiberale e poco occidentale della destra, concepita e teorizzata come il territorio degli abusi e dei soprusi, legittimati dal carisma del leader, talmente “innocente” per definizione da sottrarsi ad ogni controllo di legittimità e di legalità.

La Cassazione mette la parola fine, è sempre così, a un percorso e a una storia giudiziaria. E non deve certo essere l’inizio della nostra fine.
Questa era in realtà la vera posta in gioco, e pesava infatti quasi fisicamente sulle toghe dei giudici che leggevano ieri in piedi la sentenza in nome del popolo italiano: sapendo che da oggi si trasformeranno in bersagli polemici e personali per la furia iconoclasta della destra, nello sciagurato Paese in cui ci vuole coraggio anche solo per amministrare la giustizia secondo diritto.
La posta in gioco era dunque arrivare non alla condanna, come abbiamo sempre detto, ma alla sentenza. Dimostrare che anche in Italia vige lo Stato di diritto, e vale la separazione dei poteri. Confermare che per davvero la legge è uguale per tutti, com’è scritto sui muri delle aule di giustizia.
Per giungere a questo esito – rendere compiutamente giustizia – ci sono voluti 10 anni di indagini, 6 anni di cammino processuale continuamente accidentato dai “mostri” giudiziari costruiti con le sue mani dal premier Berlusconi per aiutare l’imputato Berlusconi, minando il codice e le procedure con trappole a sua immagine e somiglianza. Una impressionante sequela di abusi ad uso personale e diretto, senza vergogna, dal Lodo Alfano ai “legittimi” impedimenti,
alle prescrizioni brevi, ai processi lunghi: abusi in serie che nessun cittadino imputato avrebbe potuto permettersi, e nessun leader occidentale avrebbe potuto praticare.
Rivelatisi infine inutili anche i “mostri”, che hanno menomato il processo ma non sono riusciti ad ucciderlo, è scattato il ricatto psicologico su istituzioni deboli e partiti disancorati da ogni radice identitaria.
È la pressione fantasmatica del “dopo”, che impedisce di leggere il presente giudicando il passato, e dunque tiene la politica prigioniera in un’unica dimensione, quella di un precario presente, trasformando la stabilità non in un valore (come avviene ovunque) ma in un tabù: che viene prima delle identità distinte da preservare nella loro diversità e addirittura prima delle responsabilità che i partiti hanno di fronte alla loro opinione pubblica.
Ecco dunque le minacce sul “dopo”, gli “eserciti di Silvio” già schierati con le armi al piede, il leader diviso come sempre da vent’anni tra la tentazione rivoluzionaria di rovesciare il tavolo nell’ultima ordalia e la prudenza democristiana di restare aggrappato al legno del governo come all’ultimo spazio possibile di negoziazione.
Qualcosa di quasi metafisico, che dimostra come la politica sia prigioniera. Nessuno ha parlato del reato in discussione, della sua gravità e delle sue conseguenze e tutti hanno guardato solo all’autore del reato, come se fosse possibile separare le due cose, e la specialità del soggetto annullasse il crimine, o lo derubricasse, amnistiandolo di fatto nel senso comune.
Ma il senso comune è il prodotto di un’operazione politica, che tende a occultare la clamorosa evidenza dei fatti. Perché ciò che è successo ieri con la sentenza è frutto di comportamenti precisi, almeno 270 milioni di euro sottratti a Mediaset e agli azionisti, diritti su film comprati a cento dagli intermediari berlusconiani e rivenduti a Mediaset a mille, per costruire nei passaggi intermedi un tesoro illegale di fondi neri in Svizzera, a Montecarlo, alle Bahamas, nella disponibilità piena e illecita del Cavaliere.
Altro che processo politico. La Cassazione ha sanzionato ieri definitivamente una frode imprenditoriale gigantesca, da parte dell’imprenditore “che si è fatto da sé” e che “ama il suo Paese”.
Adesso sappiamo qual è la sostanza di questo amore e di quella costruzione industriale e politica.
Gli stessi sottosegretari sbandati che ieri sera annunciavano di andarsi a dimettere «nelle mani di Berlusconi » non si accorgono che stanno confermando come tutta questa destra italiana si muova dentro uno Stato a parte, dove valgono altre leggi, diverse sudditanze, logiche separate e gerarchie
autonome.
Tutto questo porta a credere che il governo non cadrà, ma per impotenza. Il governo è infatti l’ultima espressione politica che resta a questa destra senza più leader, l’unico strumento per tenerla viva, e insieme. Anzi, Berlusconi – che già attacca la magistratura «irresponsabile» – proverà a trasferire la sua tragedia personale dentro la maggioranza e nelle istituzioni, contagiandole con la sua anomalia, ieri certificata nelle televisioni e nei siti di tutto il mondo.
L’unica salvezza per la sinistra e per le istituzioni è leggere con spirito di verità quanto è avvenuto in questi anni e la Cassazione ha certificato ieri, dando un giudizio preciso sulla natura di questa destra e del suo leader, senza nascondere la testa dentro la sabbia, perché su questa natura si gioca la differenza per oggi e per domani tra destra e sinistra, cioè il nostro futuro.
Non è la destra che deve decidere se può restare al governo dopo questa sentenza. È la sinistra. Perché la pronuncia della Cassazione non è politica: ma il quadro che rivela è politicamente devastante. Per questo chi pensa di ignorarlo per sopravvivere avrà una vita breve, e senz’anima.

La Repubblica, 02.08.13