La difesa della Costituzione è una giusta battaglia politica e culturale. E non sempre il nobile conservatorismo, attaccato allo spirito più profondo della Carta, produce la cieca resistenza di ristrette minoranze che si dispongono alla sconfitta in nome della sacra fedeltà a un principio etico non negoziabile.
Lo dimostra assai bene la vittoriosa mobilitazione democratica sviluppatasi in occasione del referendum costituzionale confermativo del 2006.
In quella circostanza gli argomenti solidi del costituzionalismo democratico riuscirono a trionfare contro un perverso occasionalismo di maggioranza, con il quale la destra al governo stravolgeva gran parte della Carta del 1948. La prospettiva d’avventura, che sorreggeva gli scriteriati allievi di Calderoli e i padri costituenti del Cavaliere, consegnava un pacchetto di riforme che Leopoldo Elia stigmatizzò giustamente come premierato assoluto. Era infatti costruito un impenetrabile e regressivo congegno istituzionale che definiva un potere di comando privo di argini, limiti e controlli efficaci di legalità. Una mostruosità, senza alcun dubbio.
Contro certe smodate tendenze (così forti e incessanti negli ultimi venti anni) all’umiliazione della Costituzione repubblicana, la difesa della Carta è certo una tappa obbligata, densa peraltro di idealità. Un po’ meno nobili sono però certe pelose campagne di stampa che, santificando Grillo (!) come novello campione del costituzionalismo, dipingono l’avvento di una democrazia ormai mutilata per via delle mire egemoniche coltivate dal Colle e delle liberticide riforme dell’articolo 138. Recuperare il senso delle proporzioni non guasterebbe.
Di tutto, e quindi anche delle specifiche politiche istituzionali perseguite da Napolitano dopo il voto di febbraio, è lecito discutere nel merito. E, nel caso, è opportuno formulare anche dei rilievi critici (consentire a Bersani di verificare in aula il suo effettivo sostegno avrebbe forse potuto scrivere un’altra storia alla legislatura). Ma interpretare la oggettiva sovraesposizione del Quirinale, registratasi con evidenza nell’arco degli ultimi tre anni, non come una drammatica risposta a una emergenza reale che non tollerava vuoti di potere ma come il frutto di un disegno personale esplicito volto all’instaurazione di un regime presidenziale di fatto è una assurdità, senza un briciolo di conferma empirica.
Con scelte talvolta opinabili, come tutte le opzioni seguite nelle fasi di transizione, Napolitano ha sempre ritenuto di agire nel quadro rigoroso formalmente tratteggiato per un fedele servitore della Carta quale egli intende essere. Il suo interventismo, che è un fenomeno istituzionale innegabile, si è sempre configurato come un tentativo estremo escogitato, nel vuoto allarmante dei soggetti della politica, ai fini di una salvaguardia del sistema parlamentare. Il Colle, anche quando ha svolto degli irrituali compiti di supplenza e ha imposto una lettura creatrice delle procedure vigenti, non ha certo scommesso nell’archiviazione del regime parlamentare. Questo suo eccezionalismo indubitabile è pur sempre di matrice parlamentare. Ciò deve essere un punto fermo dell’analisi. Non per un rispetto dovuto al Colle in ragione del bon ton istituzionale, ma per l’aderenza alla verità storica.
Per questo sono, oltre che menzognere, anche un gratuito (e pericolosissimo) favore alla destra le requisitorie superficiali e aggressive de il Fatto quotidiano che dipinge l’Italia attuale come un regime divenuto ormai semipresidenziale. Non è vero che la mappa dei poteri formali sia stata del tutto stravolta dal Colle. Non esiste un diverso quadro di comando, con la matrice del potere effettivo disegnato dalle oscure volontà di potenza di Napolitano. È ridicola (oltre che un viatico al presidenzialismo a parole tanto disprezzato) la campagna di stampa che assume come nemici della Costituzione il Quirinale e la commissione di saggi incaricata di ragionare sulle riforme possibili.
Anche ammesso che ci sia stata una parziale alterazione del dispositivo stringente contenuto nell’articolo 138 della Costituzione (restano comunque ben ferme le garanzie del referendum popolare confermativo, si introduce inoltre, a tutela delle minoranze, una rappresentanza proporzionale ai voti e non ai seggi nella composizione delle commissioni), non ne consegue certo l’ingresso ormai acclarato in una situazione di estrema allerta istituzionale. Non c’è alcuna emergenza che autorizzi alla chiamata alle armi contro degli usurpatori animati dalle peggiori intenzioni. Dei saggi fanno parte, tra gli altri, anche tre costituzionalisti che proprio sulle colonne de l’Unità scrivono le loro analisi in tema di riforme istituzionali. Mario Dogliani, Massimo Luciani e Marco Olivetti sono tra i più lucidi costituzionalisti italiani, studiosi dalle forti convinzioni parlamentariste. In particolare, la storia di Luciani e Dogliani li riconduce alla tradizione del patriottismo costituzionale: sono tra i più autorevoli esponenti del Centro di Riforma dello Stato voluto da Umberto Terracini e Pietro Ingrao.
Chi demonizza i saggi con toni sprezzanti, ai limiti dell’oltraggio, e nega la necessità stessa di apportare talune riforme istituzionali inderogabili fa un pessimo servizio alla Costituzione e rischia persino di dare una mano alla causa del presidenzialismo. È evidente che alcuni ritocchi vanno apportati. Per ben tre volte negli ultimi vent’anni si sono presentate maggioranze diverse alla Camera e al Senato. Come si fa a rinunciare ad una riforma che abbatta il bicameralismo perfetto e stabilisca un vincolo fiduciario del governo solo con Montecitorio? E come è possibile ignorare il cruciale ruolo di stabilizzazione che in un parlamentarismo rafforzato possiede la sfiducia costruttiva? Se davvero i deputati del M5S aderiscono ad una cultura di tipo parlamentare non approfittare oggi (che in aula è disponibile una maggioranza così ampia a favore di riforme mirate e nel solco della forma di governo parlamentare) sarebbe un delitto. Chi propugna un totale immobilismo, e lo spaccia poi per una difesa eroica della Costituzione dal mostro del presidenzialismo, contribuisce in realtà a creare le condizioni per una soluzione plebiscitaria e carismatica alla crisi. Nel giro di pochi mesi tutto potrebbe cambiare nella politica italiana, dagli equilibri interni ai partiti (del Pd anzitutto) ai nuovi rapporti di forza elettorali. Chi non vuole il presidenzialismo, la smetta di firmare stucchevoli appelli propagandistici contro i saggi e il Colle. Nei prossimi mesi si riproporrà una secca alternativa. O le riforme in senso parlamentare o il caos plebiscitario.
L’Unità 29.07.13