Il partito Democratico procede verso il congresso. Si svolgerà a fine novembre, ha garantito il reggente, Guglielmo Epifani. Con quali regole, però, non si sa ancora. Le regole, d’altronde, non scaldano il cuore dei militanti e degli elettori. Più sensibili ai discorsi sui valori. Ai contenuti. Di cui, peraltro, si sente parlare poco. Le regole, però, contengono i valori. Li rendono possibili ed effettivi. E le procedure congressuali, attraverso cui vengono scelti i dirigenti e il leader, contribuiscono a definire l’identità stessa del partito. In particolare in questa fase, in cui le elezioni sono divenute un confronto fra persone. Cioè, tra leader di partito. Per questo la discussione avviata in questi giorni è tanto importante. E accesa. Perché serve a stabilire “cosa” e “chi” sarà il Pd. Due questioni che coincidono largamente.
Sono due gli argomenti che generano maggiore tensione. Il primo riguarda il rapporto fra partito e governo. Si traduce nella distinzione oppure la coincidenza fra segretario di partito e premier. L’indicazione del segretario e della maggioranza del Pd prevede l’incompatibilità fra i due ruoli. Un orientamento già sostenuto da Fabrizio Barca, nel suo documento, proposto alcuni mesi fa. Si tratta di una scelta diversa, rispetto alla breve storia del partito. Sia Veltroni sia Bersani, infatti, dopo essere stati eletti segretari, hanno guidato il Pd e gli alleati alle elezioni politiche. Naturalmente, questa distinzione marca la distanza fra il partito – che è “parte” – e il governo dello Stato – che è di tutti. Anche se in altre democrazie europee, come la Germania e l’Inghilterra, il leader del partito che vince le elezioni diviene, automaticamente, premier. Mentre in Francia, regime semi-presidenziale, il presidente è, di fatto, anche leader del suo partito. In Italia, però, la storica sovrapposizione fra Stato e partiti, formatasi durante
il fascismo e riprodotta anche successivamente, rende difficile accettare la coincidenza di ruoli. In particolare oggi. In tempi di sfiducia verso i partiti e le istituzioni. E di polemica accesa contro i costi della politica. Tuttavia, nei fatti, è difficile dissociare i due ruoli. In particolare, guidare il governo senza il controllo sul partito. Come dimostra l’esperienza di Prodi. Tra il 1996 e il 1998: premier senza partito. In balia delle fluttuazioni dell’Ulivo – internamente e profondamente diviso. Mentre dieci anni dopo, nel 2008, la caduta del suo governo fu, se non favorita, almeno agevolata dall’elezione alla segreteria del Pd di Walter Veltroni. Non a caso, candidato premier alle elezioni politiche di quell’anno.
La seconda questione riguarda il “metodo” per designare il segretario. Fino ad oggi, è stato scelto attraverso primarie “aperte” agli elettori del Pd. Così sono stati eletti Veltroni, nel 2007, e Bersani, nel 2009. Le primarie hanno costituito, per questo, una sorta di “rito fondativo” che radica la legittimazione del partito, prima ancora della leadership, sul coinvolgimento dei militanti, ma anche degli elettori. D’altra parte, la partecipazione alle primarie può essere considerata una sorta di “iscrizione”, visto che richiede la condivisione – e la sottoscrizione – dei valori e dei programmi del partito, ma anche il pagamento di una quota. Un’autodichiarazione esplicita a favore del partito.
Tuttavia, c’è chi preferirebbe rinunciare alle primarie, limitandole alla scelta del candidato premier. Dunque, nell’ambito della coalizione. La scelta del segretario, invece, dovrebbe avvenire attraverso congressi di partito. Fra gli iscritti. Al più, come ha precisato Epifani, fra gli “aderenti” (?).
Come si vede, la discussione sulle regole evoca questioni sostanziali. Che riguardano quale modello di partito insegua il Pd. E, prima ancora, con quali progetti, contenuti, programmi. Leader.
Invece, è difficile scacciare il sospetto che tutta, ma proprio tutta, la discussione ruoti intorno al futuro di Matteo Renzi. Che un’ampia parte del gruppo dirigente fatica ad accettare alla guida del Pd. Renzi stesso, d’altronde, pare molto più interessato a conquistare la guida del governo più che quella del partito. Probabilmente, anche gli altri leader del Pd lo preferirebbero in quel ruolo. Dopo l’esperienza delle elezioni recenti, è evidente come Renzi sia in grado di allargare i consensi del centrosinistra. Di farlo “vincere” davvero. Tuttavia, in questo momento, il posto di premier è già occupato. Da un altro leader del Pd, Enrico Letta. Giovane e accreditato nell’opinione pubblica. Letta guida una maggioranza che riunisce gli avversari di sempre. Pd e Pdl. Un governo di emergenza e di necessità. Così le strade di Renzi e di Letta sembrano incrociarsi e, in parte, scontrarsi. La durata del governo, infatti, appare un vantaggio per Letta e, comunque, un fattore di usura per Renzi. Così gli avversari di Renzi scommettono sulla durata del governo. Mentre Renzi sembra scommettere sulla fine delle larghe intese e del governo di scopo. Al di là di valutazioni politiche: per ragioni interne al Pd.
Ammetto che questa discussione non mi appassiona. E mi pare, anzi, inaccettabile. Il Pd ha bisogno di una leadership autorevole e condivisa. E, per questo, espressa attraverso il coinvolgimento degli elettori. Il più largo possibile. Dunque, attraverso primarie aperte. Il congresso, le primarie, devono offrire al Pd l’occasione per discutere del presente e del futuro. Del Paese. Dell’economia, del lavoro e del non lavoro. Delle riforme istituzionali ed elettorali. Ma anche di se stesso. Perché il Pd è ancora, come lo definiva Berselli nel 2008, un “partito ipotetico” . Un “partito incompiuto”, chiarisce il politologo Terenzio Fava, in un volume in uscita (per Aracne). Perché in costante conflitto interno. Tra giovani e vecchi, centro e periferia, ex e post/democristiani e comunisti… Fra “veltroniani”, “dalemiani”, “rutelliani”, “popolari”, “ulivisti”, “liberal”, “teodem”. E ancora: renziani, giovani turchi, ecc. Per questo al Pd può far comodo questa fase di sospensione, all’ombra di un governo sospeso. Ma un partito sospeso non può durare a lungo. Per questo il congresso è una tappa importante, decisiva. E deve essere affrontata in modo aperto. Senza rete. Senza cercare regole per escludere o scoraggiare “qualcuno” in particolare. Per la stessa ragione, se Renzi ambisce a guidare il governo, domani, deve candidarsi a guidare il partito. Oggi. Per progettare il futuro. Non “contro”, ma “oltre” questo “governo di servizio” – a tempo determinato. Perché senza conquistare il partito, comunque, non riuscirà a governare molto a lungo.
La Repubblica 29.07.13