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“Pene più severe per i violenti e stop ai processi lumaca ecco il pacchetto salva-donne”, di Caterina Pasolini

«Per difendere tutte le Giulia d’Italia entro l’estate come governo presenteremo nuove leggi». Maria Cecilia Guerra, viceministro del lavoro con responsabile per le Pari Opportunità, sceglie con cura le parole dopo aver letto la lettera della ragazza in fuga dall’innamorato aguzzino.
Giulia si sente prigioniera e chiede giustizia
«Le sue parole sono chiare e descrivono con forza storie che si ripetono troppo spesso: la protezione che si trasforma in segregazione, la violenza alternata alla dolcezza per confondere le idee e impedire di reagire »
Chiede aiuto allo Stato. E lo Stato che fa?
«Come governo dopo riunioni fra i vari ministeri stiamo per presentare un pacchetto di norme che andranno ad integrare quelle esistenti in difesa delle donne maltrattate per evitare il ripetersi di nuove vittime».
Che cosa prevederete, in concreto?
«Si va dall’inasprimento delle pene ad un ampliamento dei casi in cui si prevede la custodia cautelare, a quelli in cui si può ricorrere all’ammonimento nei confronti di chi maltratta e abusa delle donne».
I processi sono troppo lunghi…
«Ecco, per tutelare la donna durante il processo ci sono vari interventi pensati perché non debba vivere segregata e con la paura perenne di essere aggredita dall’ex compagno che ha denunciato. Prevedono tra l’altro che sia avvisata se e quando all’ex convivente viene tolto il provvedimento di allontanamento e il permesso di soggiorno in caso di violenza domestica per le immigrate».
È sicura che bastino le leggi?
«No assolutamente, le leggi non bastano a risolvere il problema della violenza alle donne. Per questo ho ripreso il lavoro di task force pensato dall’ex ministro Idem e ho lavorato con gli altri ministeri dell’Interno, della
Giustizia, dell’Immigrazione».
Cosa avete deciso?
«L’idea è che bisogna saper riconoscere le situazioni di violenza, che ci vuole formazione, basi comuni per chi lavora alla soluzione del problema, all’individuazione dei casi. Per questo l’idea di fondo è avere protocolli di intervento e di indagine condivisi come ci sono in altri paesi»»
Protocolli di intervento condivisi?
«Assolutamente sì, in molte nazioni ci sono questionari ad hoc in modo che dalle forze dell’ordine agli assistenti sociali e ai medici tutti abbiano un metodo, un linguaggio comune per definire le situazioni a rischio. Per riconoscere i casi di violenza e mettere al sicuro le donne senza perdere tempo prezioso».
Ma le case rifugio sono poche.
«È vero, sono pochissime: un decimo di quelle che ci chiede l’Europa. E anche i centri antiviolenza sono rari e faticano perché senza o con pochi fondi pubblici».
Darà finanziamenti ai centri antiviolenza?
«In passato i fondi forse sono stati spesi diversificando gli interventi in troppi rivoli, la mia idea è invece di mettere i centri come priorità di spesa quando verrà fatta la legge di stabilità. Vedendo anche se si riesce a dare un sostegno sistematico».

La Repubblica 28.07.13

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“Mai più casi come Giulia, ma lo Stato ci aiuti”

Allarme delle case-rifugio dopo la denuncia della ragazza picchiata dall’ex: servono fondi
Giulia si sente prigioniera, lei, la vittima, è costretta a nascondersi mentre chi la picchiava è libero. Eppure Giulia in quest’Italia dei femminicidi quotidiani è una di quelle poche donne fortunate ad avere trovato protezione in una casa alloggio dei centri anti-violenza: ci sono infatti solo 700 letti per accogliere ragazze maltrattate, madri in fuga con i figli da padri aguzzini.
«Dovremmo averne 5700 secondo l’Europa ma tutto o quasi è affidato ai privati, alle onlus, al volontariato. Lo Stato non dà fondi e così la situazione va sempre peggio: 63 sono centri creati da Dire (donne in rete contro la
violenza), dieci rischiano la chiusura e così altre donne non sapranno dove rifugiarsi, dove cercare aiuto, psicologico e legale. Perché da qui si parte per ricostruire un nuovo futuro. Per tornare
finalmente libere. Dalla paura». Titti Carrano, avvocato civilista, presidente di Dire, conosce bene il problema che i numeri – una donna uccisa ogni tre giorni da chi diceva di amarla – non bastano a raccontare. E così davanti alla richiesta di aiuto di Giulia, che ha scritto a
Repubblica chiedendo che lo stato «si metta dalla parte delle vittime», prova a fare il punto di quello che c’è e di quello che manca.
«Ci vogliono politiche globali e integrate, la repressione non basta. Le leggi ci sono, anche se possono essere migliorare, ma la cosa fondamentale è la loro applicazione. Per questo ci vogliono avvocati, poliziotti, carabinieri e magistrati preparati che sappiano distinguere quando è conflitto e quando è violenza. Che sappiano quando applicare la misura cautelare così poco usata. C’è bisogno di specializzazione, formazione, più sensibilità. C’è bisogno di responsabilità politica e finanziamenti non a singhiozzo altrimenti i centri chiudono. E con essi non solo un luogo sicuro ma il punto di partenza per le donne dove inventarsi un futuro». A Milano su 1500 denunce di donne malmenate ogni anno 1000 vengono archiviate, racconta Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne maltrattate, la prima creata nel ’91 con 40 milioni regalati dai milanesi. Per questo chiede più formazione dai giudici alle forze dell’ordine che «troppo spesso rimandando a casa la donna dicendo: è solo una litigata».
(c.p.)

La Repubblica 28.07.13