In Italia, sulla buona televisione c’è rassegnazione intellettuale. (da “Storie e culture della televisione italiana” a cura di Aldo Grasso – Oscar Mondadori, 2013 – pag. 24). Nell’estate delle ferie coatte in città, imposte a milioni di italiani dalle ristrettezze e dalle incognite della crisi economica, la televisione sta offrendo il peggio di sé. Quella pubblica ancor più di quella privata, in rapporto alle sue funzioni e responsabilità. Repliche, scorte di fine stagione, fondi di magazzino: il palinsesto serale dell’intrattenimento non offre una grande scelta né tantomeno un conforto a chi deve rinunciare quest’anno a partire per le vacanze.
È soprattutto la fiction di qualità che viene messa in liquidazione, a parte qualche rara eccezione come l’inossidabile serie del commissario Montalbano su Rai Uno. Per il resto, c’è un vuoto di idee e di prodotti. Un danno per gli abbonati che pagano l’abbonamento e una beffa per quanti sono costretti a restare a casa.
Il crollo della pubblicità s’abbatte pesantemente su tutta l’editoria, condizionando i bilanci e provocando drastici tagli di spesa. Ma il servizio pubblico incassa comunque il canone e ha obblighi contrattuali che le altre emittenti non hanno. Risulta tanto meno giustificato e comprensibile, perciò, l’ostracismo che viale Mazzini ha decretato negli ultimi tempi contro i produttori televisivi indipendenti che rappresentano una riserva di pluralismo, esperienza e creatività.
Consapevole di questa realtà, il ministro dei Beni e delle attività culturali, Massimo Bray, aveva proposto di inserire nel cosiddetto “decreto del fare” una norma che, in linea con gli altri Paesi europei, tendeva a ridurre lo sfruttamento intensivo di queste produzioni e a tutelarne la proprietà intellettuale. Al momento, infatti, in Italia i broadcaster detengono a vita i diritti tv che acquistano. Mentre il ministro Bray proponeva ragionevolmente di limitarne il godimento a un massimo di tre anni, rispetto all’anno e mezzo della Francia, ai 5 della Gran Bretagna e ai 7 dell’Austria.
In sede di Consiglio dei ministri è stato il viceministro alle Comunicazioni, Antonio Catricalà, a rivendicare però la propria competenza in materia ottenendo l’eliminazione di questa norma dal provvedimento. E il suo intervento, favorendo oggettivamente il duopolio Rai-Mediaset, risulta tanto più sorprendente perché proviene da un ex Garante sulla Concorrenza. Vedremo in seguito se Catricalà provvederà motu proprio o se il ministro per lo Sviluppo economico da cui dipende, Flavio Zanonato, lo solleciterà a farlo.
Non si tratta soltanto di difendere interessi legittimi. La produzione televisiva indipendente è tutelata dalla legge che obbliga i titolari delle concessioni tv a destinare al settore il 10% dei loro introiti (il 15% per la Rai), proprio a garanzia del pluralismo culturale e a favore dei cittadini telespettatori. E questa forma di “esproprio intellettuale” perpetuo non favorisce evidentemente la crescita di un comparto come quello audiovisivo che comprende con l’indotto quasi un migliaio di aziende, fattura oltre un miliardo di euro all’anno e, prima della crisi, nel 2008 occupava ancora circa 200mila dipendenti, tra diretti e indiretti.
Sotto la guida del direttore generale, Luigi Gubitosi, la Rai ha intrapreso meritoriamente una strada di risanamento e trasparenza. Ed è vero che, soprattutto nel settore dell’intrattenimento, in passato le produzioni esterne avevano accumulato abusi e sperperi. Ma ora si rischia di passare da un eccesso all’altro, deprimendo un’attività che influisce sulla cultura di massa del nostro Paese: in estate e in tutto il resto dell’anno.
La Repubblica 27.97.13