In un capitalismo che trasforma conoscenza, relazioni, il sentire e l’intelligenza personale e collettiva nei suoi mezzi di produzione più rilevanti, il tema dell’intreccio tra economia della cultura e capitalismo manifatturiero è la filigrana attraverso cui leggere la natura di transizione della crisi, con la coesistenza tra diversi modi di produzione, diversi modi di concepire lo sviluppo, l’emergere di nuovi gruppi sociali e (forse) future élite.
È questa la fotografia scattata dall’ultimo rapporto di Unioncamere-Symbola sull’industria culturale italiana, il 5,4% della nostra economia con 458mila imprese e quasi un milione e 400mila addetti tra industrie creative, culturali, patrimonio storico-artistico e arti visive a cui si affianca il sistema culturale della Pa e il non profit di associazioni e fondazioni. Numeri che indicano una resilienza del capitalismo nostrano, un vitalismo che non si è ancora spento. Tracce quantitativamente ancora deboli ma qualitativamente importanti soprattutto per il significato che rivestono. In primo luogo dal punto di vista della composizione sociale.
Le filiere della cultura sono uno dei vettori dell’emergere di una nuova composizione demografica più adatta a forme di produzione del valore la cui componente relazionale prodotta e organizzata attraverso la grande rete digitale appare sempre più rilevante. Non è un caso che in questo campo a crescere siano soprattutto le imprese femminili (oltre 75mila), degli under 35 anni (35.395) e guidate da stranieri (18.147): donne, giovani e immigrati, i tre segmenti sociali più compressi dentro la crisi. Protagonisti, a mio parere, non solo per le difficoltà ma perché “indigeni digitali e globali”.
Quella presentata nel rapporto è anche una economia della cultura che si articola geograficamente su polarità che sono l’evoluzione delle tradizionali mappe dello sviluppo italiano: il capitalismo metropolitano del Nord Ovest, oggi riarticolato sull’asse Milano-Torino, l’evoluzione del Nec di G. Fuà con le culture produttive di territori del made in Italy come Vicenza, Treviso, Pordenone, Arezzo, Macerata, le due polarità urbane di Firenze e Roma. Con una contraddizione di fondo che va affrontata se non si vuole rimanere in eterno a raccontare di buone pratiche che non riescono a fare sistema.
L’economia della cultura vive certo del protagonismo delle soggettività, ma può crescere solo se immersa in un ecosistema territoriale e funzionale adatto. Quello che manca in Italia. O meglio in Italia l’ecosistema prevalente è quello ereditato dal passato, sia sul piano dei beni culturali e paesaggistici che su quello dei saperi produttivi territoriali: ma tutto ciò non basta più, manca l’ecosistema della contemporaneità. Che non è questione meramente tecnologica, quanto di nuove culture dell’impresa, di forme di accesso alla finanza in grado di accompagnare le start-up, di motori della (grande) committenza che intervengano nel ritrarsi del pubblico costituendo gli sbocchi di mercato necessari a dare consistenza alle tracce di innovazione diffusa. Senza fare l’errore di concepire la grande industria come soggetto alternativo alla molecolarità dell’impresa culturale o quest’ultima come sostitutiva della manifattura. La storia di questo paese, da Olivetti fino alle medie imprese, testimonia del contrario. Sono convinto che la strada da praticare sia invece l’intreccio, metaforicamente rappresentabile come impollinazione reciproca tra capitalismo manifatturiero e nebulosa dei giovani “smanettoni” espressione della società terziarizzata. Un rapporto che va costruito. E di cui nelle filiere studiate da Unioncamere tracce ve ne sono soprattutto in quelle 228 reti di impresa tra le quali il 28,8% fa software ed è in rete con chi fabbrica computer e elettronica, il 5,6% è architetto e coopera con imprese edili specializzate, il 44,7% fa design e produzione di stile e il 6,5% fa comunicazione e branding e tutti sono parte di filiere ibride dell’agroalimentare e della meccanica.
Intrecci finalizzati allo sviluppo di reti lunghe per raggiungere i mercati strategici dei Brics (il 10% del valore dell’export è riconducibile a produzioni culturali), all’innovazione high-tech orientata alla multifunzionalità di produzioni mature come nel caso della domotica per la casa, dei software per il packaging o dell’R&S nella moda. Reti lunghe e innovazione che stanno dentro un orizzonte culturale di green economy fatto di efficienza ambientale e sostenibilità. Per dare forza a questo intreccio ed evitare che la composizione sociale che la incarna galleggi troppo a lungo nella condizione di un “quinto stato” senza ruolo sociale e politico, occorrono anche politiche che accompagnino l’ibridazione tra creatività e nuovi modelli di impresa sociale, e non ultimo politiche di nuovo welfare soprattutto nelle grandi aree metropolitane terziarie.
Occorre infine aprire una grande discussione sul fatto che in un capitalismo della conoscenza e delle reti post-crisi la produzione del valore dipenderà sempre più dalla capacità del lavoro e dell’impresa di ricostituire in modo condiviso ed etico quei beni comuni dell’identità, del paesaggio, della coesione sociale, della sostenibilità che alimentano la distintività del made in Italy sui mercati globali. Insomma senza ecosistema della contemporaneità in cui cultura e manifattura si innestino reciprocamente, la stessa economia della cultura stenterà a produrre quei moltiplicatori del valore che soli gli consentirebbero di fungere da volano anche per il resto del sistema produttivo.
Il Sole 24 Ore 21.07.13