La politica ha salvato il ministro degli interni Angelino Alfano, ma non lo ha sollevato né assolto dalla sua responsabilità. I ministri sono sempre responsabili politicamente degli atti della loro amministrazione. Un principio, questo, che emerge alla fine del XVIII secolo in terra americana dove i padri fondatori introdussero nei
Federalist Papers (art. 65) il concetto di “responsabilità”.
Il principio venne poi sancito in Francia nella
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789 (art. 15) laddove si asserisce solennemente che «la Società ha il diritto di chiedere conto ad ogni agente pubblico della sua amministrazione ». Quindi, poiché ogni atto del governo è compiuto in nome del ministro, questi deve assumerne la responsabilità di fronte al Parlamento e di fronte all’opinione pubblica. Se sono stati commessi errori il ministro può prendere provvedimenti disciplinari e sanzionatori nei confronti dei funzionari, ma ciò, come scrivono i costituzionalisti anglosassoni, «non lo assolve dalla responsabilità politica». A meno che il governo intero non si assuma collettivamente l’onere dell’azione compiuta. È esattamente quanto ha fatto Enrico Letta. Pur avendo voluto più di ogni altro far luce sulla questione dell’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia, il presidente del Consiglio ha fatto scudo ad Alfano (e alla Bonino) avocando a tutto il governo la responsabilità – collettiva – dell’affaire kazako. In questo modo al pluri-incaricato ministro dell’Interno, vice presidente del Consiglio e segretario del Pdl, Angelino Alfano è stata assicurata la salvezza politico-personale.
I costi di questa rescue-operation rischiano però di essere superiori ai benefici. Il presidente della Repubblica ha steso il suo manto protettivo sul governo per evitare rischi di instabilità e metterlo al riparo dalle pressioni speculative di una estate che si preannuncia torrida su questo versante. C’è da sperare che sia stata la scelta più opportuna per il sistema nel suo complesso. Tuttavia la difesa della continuità governativa sic et simpliciter, lasciando passare questo episodio come un infortunio di qualche funzionario distratto, non ripara il danno gigantesco di credibilità del nostro Paese agli occhi della comunità internazionale.
L’intrusione nei più delicati apparati dello Stato e ai livelli più alti di un ambasciatore (sic!) e di altro personale diplomatico di un Paese non alleato e tenuto a distanza dal consesso delle nazioni democratiche per i caratteri autocratici del suo regime mette in pessima luce l’affidabilità e l’impermeabilità della nostra amministrazione. Abbiamo dato la sensazione di avere un apparato di sicurezza influenzabile e penetrabile da emissari di Paesi retti da despoti autoritari e, per di più, di essere supini e servizievoli nei confronti delle richieste di questi interlocutori esterni, tanto da venire persino telecomandati nelle indagini. Infine, abbiamo manifestato totale insensibilità e disprezzo (proprio gli italiani brava gente) nei confronti di persone deboli e indifese – una donna e una bambina – impacchettate e spedite a forza verso la totale disponibilità del satrapo kazako.
In tutto questo c’è la responsabilità politica del ministro che ha oggettivamente (e forse soggettivamente) consentito l’operazione deportazione; e tutto questo non accadeva in una sperduta caserma dell’entroterra molisano, ma ai piani alti del suo ministero. Se Alfano non è nemmeno politicamente responsabile dei vertici della sua struttura, allora è veramente irresponsabile.
E la sua irresponsabilità finirà per costarci carissima nell’impalpabile quanto inflessibile “mercato” della credibilità internazionale.
L’unica via d’uscita da un ulteriore “schettinizzazione” dell’immagine del nostro Paese consiste in un atto autonomo da parte del ministro dell’Interno, con un sussulto di dignità che gli farebbe e gli restituirebbe onore: offrire dimissioni volontarie. Se Alfano non ha questa sensibilità nelle sue corde, almeno che ci sia qualcuno a suggerirglielo.
La Repubblica 21.07.13