In un paese normale Roberto Calderoli si sarebbe dimesso da vice-presidente del Senato dopo l0oltraggio alla Ministra Kyenge, Angelino Alfano si sarebbe dimesso da titolare degli Interni dopo la rendition della signora Shalabayeva avvenuta nel disprezzo della dignità nazionale, e anche la ministra Emma Bonino starebbe riflettendo sul da farsi.
Ma non siamo un Paese normale. Come dimostra anche lo stato della maggioranza che sostiene il governo. Una maggioranza che ha le sembianze delle Grande coalizione, che viene contestata dai suoi oppositori come l’espressione dell’inciucio, ma che in realtà non si fonda sulla benché minima alleanza politica. Il governo Letta è il comitato esecutivo di un Parlamento privo di maggioranza, ha un programma di ricostruzione emergenziale (lavoro, crisi sociale, riforme in grado di scongiurare l’esito nullo delle prossime elezioni), tuttavia è indebolito quotidianamente da conflitti e tatticismi di ogni genere. Ad ogni tornante si spalancano le porte della crisi: che si parli di Imu o delle sentenze su Berlusconi, del caso kazako o di legge elettorale. Il paradosso è che a rendere fragile il governo non è il fantomatico inciucio, ma appunto l’assenza di un’agenda condivisa, finalizzata all’approdo in un nuovo, sano bipolarismo.
Calcoli personalistici, errori, storture, ipocrisie: tante cose spingono il Paese sempre più nella palude, alimentano la sfiducia interna ed esterna, rinviano nel tempo l’inizio di un coraggioso cambiamento. Hanno qualche interesse Berlusconi e Grillo a costruire una democrazia di tipo europeo? Di certo, c’è una differenza etica, oltre che politica, tra la scelta compiuta da Iosefa Idem e il doppio rifiuto di Alfano e Calderoli. C’è il senso di una grave irresponsabilità istituzionale nella difesa di squadra operata dalla Lega. E c’è il senso di una debolezza estrema nell’arrocco del segretario del Pdl: proprio lui che vuole prendere la bandiera del centrodestra post-berlusconiano è diventato ostaggio dei falchi, che intendono blindare il partito patrimoniale del Cavaliere e, con esso, la seconda Repubblica.
Le drammatiche foto di gruppo di questi giorni ritraggono anche altre mostruosità: ad esempio, i grillini che volutamente minimizzano il caso Calderoli per evitare di dare sponda al Pd e invece forzano sul caso Alfano, non per danneggiare il Pdl, bensì per allargare le fratture nella sinistra. Ma forse l’esito più inquietante di questa impotenza delle istituzioni democratiche sta nel ribaltamento dei ruoli tra politica e apparati dello Stato. Se fosse tutto vero il rapporto del prefetto Pansa, lo scenario sarebbe il peggiore possibile: un fatto di tale gravità, carico di conseguenze politiche e diplomatiche di prim’ordine, è stato gestito da funzionari che non hanno sentito il dovere, e neppure il bisogno, di comunicare le loro azioni a chi, per Costituzione, ha la responsabilità dell’indirizzo politico.
Questo è il prodotto della seconda Repubblica. Questo è il precipizio nel quale siamo finiti. Per questo i casi Calderoli e Alfano non possono considerarsi chiusi. L’indignazione e lo sconcerto hanno molte ragioni. Ma la caduta del governo e l’apertura di una crisi senza sbocchi plausibili sarebbero stati un ulteriore colpo all’Italia, dopo la ferita, che resta insanabile, della rendition della signora Shalabayeva e della piccola Alua. Ora comunque bisogna guardare con onestà anche ai difetti del centrosinistra e domandarsi perché, quando Alfano si dimostra incapace di fare il ministro, è il Pd e non il Pdl ad entrare in crisi. E quando Berlusconi viene condannato o minaccia atti eversivi, è il Pd e non il Pdl a dividersi.
Questa fragilità, questa malattia, non può essere trascurata. Se ne occupi il congresso del Pd, perché altrimenti il Pd diventerà un fattore di crisi per il Paese. O incalzerà il governo, dandogli un missione che rispecchia le sue priorità politiche, oppure lo condannerà. I democratici sono oggi il collante del Paese, sono la sola forza politica in piedi, sulle cui spalle grava il peso maggiore del funzionamento delle istituzioni. Ma che siano all’altezza del compito, lo devono dimostrare. Allargando anziché restringere le radici nella società. Confrontandosi apertamente con il dissenso, nella prospettiva di una moderna sinistra plurale. Rilanciando sui temi del lavoro e dell’uguaglianza, perché una sinistra che si rispetti non si fa confondere dalla destra e neppure da radicalismi elitari. Trovando però l’unità quando è necessario: forse soffrirà qualche esibizionista, ma almeno verrà rispettato il voto di quei cittadini che hanno portato il Pd ad essere il partito di maggioranza relativa e che hanno il diritto di giudicarlo alle prossime elezioni, senza che si ripetano le scene dissolutive delle presidenziali.
Ovviamente non sarà mai una regola da sola, o una disciplina imposta, a indicare un destino comune. La regola però è la prova di una comunità. E la scelta di fondo del congresso Pd è se restare una comunità organizzata in un partito, oppure cedere al mito del capo carismatico. Cambiare il sistema politico o farsi cambiare. Da questa scelta deriva un’idea di Paese, oltre che di riforma costituzionale. È una questione di identità, di progetto. Solo un Pd più forte e incalzante può dare al governo una missione fino al semestre di presidenza italiana dell’Ue. Berlusconi, a quel punto, dirà sì o no. Ma se Letta fosse abbandonato nelle condizioni attuali, senza neppure definire al più presto un’intesa sul bipolarismo di domani, sarebbe meglio chiudere subito il sipario.
L’Unità 21.07.13