La mozione di sfiducia individuale contro il ministro dell’Interno (e vicepresidente del Consiglio) Angelino Alfano è stata respinta con il voto pressoché compatto dei tre partiti della “strana maggioranza”. Nel Pd ci sono stati tre astenuti e tre assenti nei confronti dei quali (voglio sperare) non ci sarà alcuna censura. Si tratta infatti di un tipico caso di obiezione di coscienza motivato dal fatto che sia Enrico Letta, sia il segretario Epifani e sia il presidente della Repubblica avevano definito il caso kazako come incredibile e intollerabile al punto da rivolere indietro madre e figlia incautamente e inopportunamente estradate in Kazakhstan.
Resta tuttavia in piedi la questione della permanenza al governo di Alfano, sanata solo parzialmente dalla non del tutto provata sua ignoranza dei maneggi dei suoi più intimi collaboratori, in parte già sostituiti nei ruoli che avevano. Enrico Letta ha assunto su di sé la certificazione di quella ignoranza-innocenza, ma resta comunque aperta la questione della responsabilità politica che rappresenta uno dei cardini della pubblica amministrazione. L’ha ricordato ieri su questo giornale Stefano Rodotà, ma – mi piace qui ricordarlo – si tratta di un principio che ha contraddistinto la storia costituzionale italiana fin dai suoi albori, da quando la affermò Marco Minghetti e con lui Ruggero Bonghi e Zanardelli e da quando Silvio Spaventa creò la sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato proprio per difendere i cittadini dai possibili arbitrii della pubblica amministrazione.
Nel caso specifico, la responsabilità politica di Alfano risulta tanto più piena e ineludibile in quanto il ministro era perfettamente al corrente delle richieste dell’ambasciatore kazako al quale, qualora le due estradate non dovessero esserci al più presto restituite, il nostro ministero degli Esteri dovrebbe togliere il gradimento e rispedirlo in patria.
Del resto il Senato e in particolare il Pd, come risulta dalla dichiarazione di voto del capogruppo Luigi Zanda, ha votato contro la mozione di sfiducia dando al proprio voto il significato di un voto di fiducia a Letta e al governo da lui presieduto. Lo stesso Zanda ha rilevato che Alfano ha troppi incarichi per poterli adempiere con la dovuta diligenza, una constatazione che lo stesso Alfano, avendo ormai ottenuto il riconoscimento della sua ignorante innocenza ma non certo l’esenzione dalla responsabilità politica che incombe su di lui come un macigno, dovrebbe riconoscere e al più presto dimettersi lasciando al suo partito il diritto di mettere un altro al suo posto.
Questo dovrebbe avvenire, questo ho suggerito venerdì scorso a Berlusconi e questo – penso io – sarebbe gradito anche al Quirinale perché rafforzerebbe il governo nel momento in cui ne ha il maggior bisogno.
Non dovrebbe esser dimenticato da alcuno che dei tre partiti favorevoli al governo il Pd è quello che dispone della maggioranza assoluta alla Camera e della maggioranza relativa al Senato. È vero che all’attuale formula di governo non ci sono alternative politiche, ma possono esserci alternative numeriche; sicché, qualora le condizioni politiche cambiassero, un’alternativa potrebbe configurarsi sempre che abbia come perno, numericamente e politicamente indispensabile, il Pd. Fino quando durerà questa legislatura senza di loro nulla si può fare. Questo punto è bene sia tenuto presente da tutti, a cominciare dallo stesso Pd che a volte sembra dimenticarsene sia a livello degli organi dirigenti sia a quello dei militanti e degli elettori.
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Non mi pare ci siano altre considerazioni da aggiungere sulla stretta attualità politica e tantomeno sulla sentenza definitiva che riguarda il processo Mediaset alla quale mancano esattamente dieci giorni. Si tratta, come lo stesso interessato-imputato ha più volte riconosciuto, di un evento molto importante per lui ma del tutto distinto dalla vita del governo.
Nessun salvacondotto è disponibile e neppure pensabile, fermo restando che la sentenza può confermare la condanna o decidere di una parziale o totale invalidazione nei limiti dei poteri che l’ordinamento assegna alla Corte di Cassazione. Le sentenze, proclamate a nome del popolo italiano, possono essere tecnicamente discusse, ma accettate con rispetto nella loro sostanza. Ripercussioni politiche squalificherebbero chi le mettesse in atto e non penso sarebbero gradite dai cittadini elettori, quali che siano le loro personali convinzioni.
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Desidero invece riprendere brevemente un tema sviluppato qualche giorno fa sul nostro giornale da Michele Serra, del quale sono amico ed estimatore di quanto pensa e scrive; ma sul suo ultimo intervento intitolato “Dire qualcosa di Sinistra” sento di dovergli sottoporre qualche osservazione.
Serra sostiene che, a partire dalla Rivoluzione francese dell’Ottantanove, ebbe inizio un cambiamento politico che con fasi diverse ed anche alterne è arrivato fino ai nostri giorni e ancora durerà, sempre opponendo la destra alla sinistra, la prima incline a conservare l’esistente e la seconda a cambiarlo.
La parola che distingue la sinistra è dunque cambiamento, che può andare dal più spicciolo riformismo fino alla vera e propria rivoluzione che tutto abbatta e tutto ricostruisca. Certe volte è preferibile l’uno e altre volte l’altra purché di cambiamenti si tratti visto che questa evoluzione è il destino della nostra specie. C’è chi frena e anche il freno è talvolta necessario purché ceda infine all’acceleratore cioè appunto al cambiamento. Spero di aver fedelmente ricapitolato.
La descrizione di Serra è giusta ma estremamente semplificata. Manca un elemento fondamentale che si chiama realtà, ed un altro ancor più determinante che si chiama “resto del mondo”. Sia la realtà sia il resto del mondo debbono esser tenuti presenti quando
si parla di cambiamento e dei due pedali che lo regolano, cioè il freno e l’acceleratore.
La rivoluzione dell’Ottantanove richiamata da Serra era in realtà cominciata due secoli prima con Colombo e la scoperta del Nuovo Mondo, poi con Galileo e Copernico nella scoperta della nuova scienza e con Montaigne nella cultura e nel pensiero; infine con l’Il-luminismo e l’Enciclopedia.
Di lì comincia un’epoca che si chiamò la modernità e i suoi cambiamenti, i primi dei quali, nella politica propriamente detta, ebbero inizio nientemeno con il regno di Luigi XVI che fu un sovrano riformista anche se alla fine ci rimise la testa insieme alla sua famiglia. Infatti chiamò al governo i fisiocratici e Turgot, indisse dopo circa due secoli la riunione degli Stati Generali e ne accettò la trasformazione in Assemblea costituente, anche per combattere una recessione che stava impoverendo le campagne; infine accettò la Costituzione del 1791 e l’Assemblea legislativa che ne fu il risultato.
Qui si ferma il cambiamento democratico che, avendo perso di vista l’elemento della realtà, si trasformò rapidamente nella dittatura di Robespierre ispirata dai giacobini e dalla Comune di Parigi e culminata nel terrore. Danton cercò di impedire quella deriva e di deviarla nella difesa patriottica contro gli eserciti delle monarchie europee, ma ci rimise la pelle anche lui, insieme ai repubblicani democratici della Gironda. Poi Robespierre fu rovesciato e cominciò il terrore del Direttorio; poi Napoleone e vent’anni di guerre, poi la restaurazione borbonica, poi il regno parzialmente liberale di Filippo d’Orleans, poi la seconda rivoluzione del Quarantotto che coinvolse tutta l’Europa cui seguirono i prussiani da un lato e Napoleone III dall’altro con l’annessa “cuccagna” del primo capitalismo corrotto fin nelle midolla, poi Sedan, poi la Comune e infine la repubblica parlamentare.
Insomma dall’Ottantanove alla fine dell’Ottocento tre anni di cambiamenti progressisti e un secolo di dittature, terrore, stragi, guerre. Seguirono trent’anni di
Belle Époque e poi di nuovo terrore, stragi e guerre dal 1914 al 1945. Finalmente una destra e una sinistra accettabili e un capitalismo di tonalità democratica. Nel frattempo però la modernità è terminata. Siamo agli albori di un’epoca nuova, socialmente “liquida”, globale, tecnologica, nella quale il linguaggio è radicalmente cambiato e quindi anche il pensiero che lo articola e ne è articolato.
Questa, caro Michele Serra, è la situazione nella quale dire qualcosa di sinistra, come tu chiedi, è certamente necessario, ma dove la parola che continua a significare cambiamento sta vedendo la fine di un’epoca mentre l’epoca nuova non è ancora cominciata. Per questo siamo liquidi, acqua priva di forma e assenza di contenitori.
Il cambiamento spetterà farlo ai giovani. Tu ed io, caro amico mio, abbiamo vissuto il nostro tempo. Chi vuole il cambiamento e si rivolge a noi può solo essere aiutato a non dimenticare l’esperienza passata ma non ad immaginare il futuro. Sarebbe come aver chiesto a Boezio i rudimenti della civiltà medievale mentre lui aveva in mente ancora la romanità e perciò non era adatto.
La Repubblica 21.07.13