Forse nessuno più di Alfano è consapevole che il voto del Senato non ha chiuso un pasticciaccio che lascia in giro molte ruggini. La crisi è stata al momento riassorbita, senza gravi contraccolpi. Solo grazie all’autorevolezza del Colle e al senso di responsabilità per l’ennesima volta mostrato dal Pd le istituzioni non precipitano nel caos.
Non è certo su queste precarie condizioni, di uomo salvato per grazia ricevuta, in ragione cioè di reiterate e sin troppo costose prove di ragion di Stato, che però Alfano confidava per accreditarsi come il capo dell’ala politica della destra, capace di trarre un qualche senso politico costruttivo dall’esperienza controversa del governo di servizio. Ora, se non coglie le ineluttabili conseguenze politiche della vicenda, il segretario del Pdl rischia di essere risucchiato proprio dalle componenti più oltranziste del suo schieramento. Cioè da quelle pattuglie barricadiere che, al progetto di una destra capace di avventurarsi oltre le spine della custodia giudiziaria del capo, non guardano neppure alla lontana. E non aspettano altro che gli echi di sentenze scomode per mettere in scena le ridicole prove di Aventino. Ci sono motivi formali che impongono ad Alfano un passo indietro. Dal punto di vista istituzionale, un ministro dell’Interno non può infatti rimanere indifferente dinanzi all’usura irreparabile del vincolo di trasparenza con la pubblica opinione (non solo italiana), alla rottura degli indispensabili canali di fiducia che lo legano al servizio degli alti funzionari del dicastero, alla emersione di inaccettabili zone di opacità nei movimenti di spezzoni degli apparati dello Stato. Al riguardo, in verità, emergono impressionanti reticenze, e persino un tocco di dilettantismo, che coinvolgono l’esecutivo nel suo complesso. Un autorevole governo di larghe intese non può accettare, senza reagire con la necessaria determinazione, di essere esposto al ridicolo da interventi illeciti orchestrati da ambienti diplomatici stranieri. Sconcerta che nessun atto ufficiale, fermo ed inequivocabile cioè, sia stato ancora intrapreso nei confronti di un ambasciatore che ha assunto comportamenti così irrituali e illegali. Ma il nodo politico della crisi è ancora più rilevante degli aspetti procedurali pur così eclatanti. Alfano potrà meglio giocare le sue carte, quelle di un interlocutore politico in una fase di transizione assai turbolenta, senza avere più a disposizione le chiavi di un dicastero ormai diventato troppo scottante per lui. La rinuncia alla delega, in un probabile rimpasto, non comporta una decapitazione del ruolo politico, che anzi potrà svolgersi con più efficacia senza i ricatti prevedibili, destinati a cadere su un ministro ormai dimezzato. Adesso che al Senato è stata sventata un’ardua prova di forza, che mirava diritta alla caduta del governo senza avere pronta alcuna soluzione di ricambio, si pone per tutti i partiti (a quelli che sostengono Letta anzitutto, ma anche alle formazioni di opposizione, che non possono ritenersi immuni dalla seria riflessione) il problema di un monitoraggio dell’esperienza sin qui compiuta. Una cultura del senso (certo solo contingente) delle larghe intese, come rimedio solo di eccezione ma ineludibile alla crisi di governabilità, manca nella politica italiana. E questo determina incertezze e brutte scorciatoie propagandistiche. Le forze che legittimamente scelgono di collocarsi all’opposizione, devono certo sviluppare una incalzante funzione di controllo e di verifica serrata, ma non possono condurre delle battaglie ad altissima intensità polemica, per non rendere poco credibili le necessarie politiche di alleanze che dovranno al più presto riaprirsi secondo una limpida polarità destra-sinistra.
Un esecutivo di larghe intese, d’altra parte, non regge se a portare la croce sono soltanto le forze che giacciono sull’asse della responsabilità, ossia se tutto l’onere ricade sul Pd e sul Quirinale. Troppo gracile appare nel lungo periodo questo tipo di sostegno, di sicuro destinato a naufragare dinanzi a scogli troppo grandi per essere schivati. La ritrovata compattezza del Pd non cancella i palesi tentativi orchestrati in questi giorni da una parte dei grandi media che intendono spezzare gli equilibri delicati del dopo voto, magari trovando degli agganci nelle confuse dinamiche interne per scaldare smodate volontà di comando e destabilizzare il sistema politico. Al governo e all’opposizione manca la percezione chiara che, sin quando non maturano altre soluzioni politiche, cioè intese adeguate ai rapporti di forza e alla drammaticità della crisi sociale, giocare oltre il lecito ai fianchi di un esecutivo di per sé anomalo è sintomo di una cecità assoluta e anche di una irresponsabilità storica. Proprio perché le larghe intese sono solo una parentesi per mancanza di altri sbocchi, e l’alternanza è invece una realtà fisiologica, sarebbe opportuno che al governo e all’opposizione maturasse un salvifico senso del limite.
L’Unità 20.07.13